Venezia 73 - The woman who left
Quando a un festival di cinema arriva, il più delle volte verso gli ultimi giorni, una nuova opera di Lav Diaz, lo scossone tellurico che provoca relativizza la qualità vista fino a quel momento, e tutto quel che era stato definito “capolavoro” sull’onda di un entusiasmo sorretto dall’hype e dalla novità assoluta ne esce ridimensionato, ridefinito, relegato in un ambito pur vasto, vastissimo e splendidamente vitale di “cinema normale”, dentro il quale è impossibile inserire, classificare, catalogare il cinema del regista filippino, divenuto nel corso di questi ultimi dieci anni personalità di culto presso i cinefili più puri e duri, disposti a concedergli anche fino a dieci ore della propria attenzione per seguire le sue storie fiume, permeate di una pietas tragica e di un pessimismo cosmico di portata dostojevskiana, inquadrate in un bianco e nero a volte cinereo, a volte argentato, e illustrate da piani sequenza fissi per durate che possono arrivare anche a dieci, dodici minuti, stazioni di un percorso narrativo simile ad un calvario progressivo mai redento da un finale lieto o aperto ad una qualsiasi speranza. Fa eccezione Norte, presentato nel 2013 a Cannes, dalla “contenuta” durata di 4 ore, girato a colori con una macchina da presa insolitamente mobile, e con un finale meraviglioso che vede, una volta tanto e pur in un contesto segnato dall’amarezza e dal rimpianto, trionfare il bene sull’avverso destino che si accanisce su tutti i personaggi raccontati negli altri film. A Venezia 73 il cineasta filippino ha portato The Woman Who Left, il suo lungometraggio finora più breve (tre ore e quarantacinque minuti di durata), realizzato anche questo in bianco e nero e con scansioni narrative che dilatano le frontiere dei tempi di visione dando origine a un “tempo nuovo” del cinema, che vince la sfida lanciata agli spettatori (e volentieri raccolta dai più disponibili), magari spaesati all’inizio della navigazione su un fiume che da incerto corso d’acqua diventa via via un torrente in piena che travolge, irretisce, incanta, e trova nello stremare le forze di chi lo guarda ulteriore strumento espressivo per raccontare vicende umane misere, dolenti, disperate, e cariche di densi messaggi politici. Lo sfondo è sempre la storia più e meno recente delle sue Filippine, questa volta fotografate verso la fine degli anni ’90, durante la complessa evoluzione dei fatti che nel Sud Est Asiatico seguirono l’affrancamento di Hong Kong dal controllo britannico, con le inevitabili conseguenze sui rapporti tra le nazioni e le isole di quella zona del Pacifico. Un paese lacerato dalla corruzione, in mano a criminali senza scrupoli, incarnazione di un male congenito puro, sprigionato dalla natura maligna di una terra aspra, impervia, sferzata dalle piogge e dai venti tropicali. Grazie ai suoi meravigliosi attori, dalla protagonista Charo Santos-Concio al malvagio boss mafioso di Michael De Mesa, allo sfortunato transessuale cercaguai creato da un John Lloyd Cruz di stupefacente bravura meritevole dell’attenzione di un premio, tutti caratteri dalla statura degna di un grande romanzo russo dell’Ottocento (lo stesso Lav Diaz ha affermato di essersi ispirato a un racconto di Tolstoj), il film ha sventrato il cielo del Lido come una folgore apocalittica, ammantando l’intera Mostra veneziana di un’angoscia cupa, livida, irriducibile, che ha segnato il cuore di chi ha resistito fino al termine della proiezione con una ferita profonda e irrimarginabile, e ha spazzato via ogni possibilità di confronto con tutti gli altri titoli del concorso. Qualunque sia stato il verdetto finale della Giuria.
(Ang Babaeng Umayo - The Woman Who Left); Regia: Lav Diaz; sceneggiatura: Lav Diaz; fotografia: Lav Diaz; montaggio: Lav Diaz; interpreti: Charo Santos-Concio, John Lloyd Cruz, Michael De Mesa; produzione: Sine Olivia Pilipinas; origine: Filippine, 2016; durata: 226’