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Venezia 73 - The Bad Batch

Pubblicato il 13 settembre 2016 da Filippo Baracchi

VOTO:

Venezia 73 - The Bad Batch

E’ difficile descrivere un’opera discontinua e abbagliante come The Bad Batch. Si potrebbe finire intrappolati dal caos che esprime ma allo stesso tempo esserne attratti. Ed infatti in un mondo social ma sempre più chiuso in comunità, raccontare "il lotto dei cattivi", o meglio degli emarginati, è un atto di presunzione e al tempo stesso di libertà. Specialmente se questa libertà se la prende una regista al suo secondo film.
Ana Lily Amirpour è una regista con carattere, definita a suo malgrado “la nuova Tarantino”. Gli appellativi, si sa, non giovano specialmente a chi è nuovo nel settore. Però per finire con il suo secondo film a Venezia, prendere un premio, del carattere deve averlo espresso.
Già nell’horror A Girl Walks Home Alone at Night (2014), presentato al Sundance, aveva piacevolmente impressionato critica, appassionati del genere e soprattutto i giovani offrendo un horror elegante nella messa in scena. Perché, da quello che si è potuto comprendere a Venezia, Ana Lily Amirpour lavora con istinto, e crea il suo immaginario con la musica che ascolta, rimescolando miti occidentali e una messa in scena da sperimentatrice digitale (non per niente i giovani sembrano adorarla).

Lasciata un’ipotetica città dell’Iran per il Texas, il bianco e nero per colori brillanti del deserto, la sua eroina questa volta è Arlen (Suki Waterhouse, già vista in Pride and Prejudice and Zombies), una bionda al quale vengono amputati un braccio e una gamba. Una redidiva con il cinismo di Nikita che vive un viaggio ai confini della realtà in alcune comunità di homeless. E se gli homeless, al quale la regista dichiara di aver vissuto accanto per un certo periodo, sono simbolo dell’America oggi emarginata, il cannibalismo, il paesaggio westerniano, i personaggi e il loro ermetismo, le immagini cool e i rave party fanno parte dell’immaginario della regista. Che piacia o meno, è curioso trovare una pellicola che fa del caos quell’oggetto del desiderio, ma al tempo stesso svuota il mito americano descrivendo la vera società social di oggi (ma anche una parte consistente della società occidentale odierna). E se gli intenti della regista erano quelli di una lettera d’amore in salsa western verso gli States, questo “amore” in The Bad Batch si compone di passione e istinto, ironia e sarcasmo (pensiamo a Jim Carrey nei panni homeless che vaga per il deserto, quasi irriconiscibile e senza dire una battuta, ma anche un Keanu Reeves deformato) che in un certo cinema indipendente non si vedeva da tempo (il film più simile è forse La notte del giudizio: Election Year di De Monaco). Certo non è un capolavoro, in alcuni punti è compiacente nella messa in scena (vedi il co-protagonista Jason Momoa che vive nel film per la sua fisionomia), ma forse nel film di genere rimane l’unico vero cult di Venezia 73.


CAST & CREDITS

(The Bad Batch); Regia: Ana Lily Amirpour; sceneggiatura: Ana Lily Amirpour; fotografia: Lyle Vicent; montaggio: Alex O’ Flinn; musica: Andrea Von Foerster; interpreti: Suki Waterhouse, Jason Momoa, Keanu Reeves, Jim Carrey, Giovanni Ribisi; produzione: Annapurna Pictures, Vice Films, Human Stew Factory; origine: USA, 2016; durata: 116’


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