EARS OPEN, EYEBALLS CLICK

Se il sergente istruttore di Full metal jacket poteva sembrare una sorta di metafora delle pressioni psicologiche in un campo per l’addestramento dei marines, frutto del genio e dell’estro kubrickiano, bisogna ricredersi. Il documentario di Cannan Brumley, presentato a Pesaro 42 nella sezione Focus on indipendent US docs, presenta una situazione che lascia oltremodo esterrefatti.
In poco meno di due ore di film, ci viene presentata una summa di due settimane di addestramento di ragazzi che hanno deciso di intraprendere la carriera nell’esercito americano. L’addestramento è durissimo e, malgrado il regista si limiti solo a mostrare, senza commento di alcun tipo e senza fornire alcuna spiegazione per riuscire a comprendere il senso delle assurdità a cui assistiamo, viene spontaneo porsi qualche piccola domanda sul significato stesso di civiltà, di umanità. La guerra, in fondo, è stata nel corso della nostra storia un mezzo per cambiare più o meno radicalmente l’assetto geopolitico e sociale del nostro mondo. Quindi non possiamo definire incivile un sistema che supporti la guerra, dato che il concetto stesso di guerra è inscindibile da quello di civiltà occidentale. E a questo ci siamo tristemente rassegnati. Ciò a cui non vorremmo mai rassegnarci però, è il modo in cui ci si prepari a tutto questo. Un campo d’addestramento dei marines diventa così un luogo che sembra fuori dal mondo, un posto in cui viene annullata completamente la dignità, in cui la personalità soccombe sotto l’abbrutimento dell’automatismo, in cui l’uomo perde tutto ciò che lo rende tale, e si trasforma in una bestia addestrata all’ordine, alla disciplina, alla violenza.
Lo sguardo lucido e distaccato di Brumley, sia regista che unico operatore rimasto al campo dopo la defezione di altri tre cameraman resistiti solo qualche giorno, ci offre una visione totale dell’addestramento dei marines. Forse manca un soldato Palladilardo e nessun soldato di colore viene chiamato Biancaneve. Ma le assurdità sono comunque tante. Per andare al bagno bisogna portarsi un cubo di cemento armato, per dimostrare di essere uomini veri bisogna riparare letti spaccati dalla furia di sergenti istruttori, uno dei quali grida ad un aspirante marine ‘Why did you stop?”, quando il ragazzo interrompe il combattimento con un avversario caduto a terra. La violenza psicologica è ciò che colpisce maggiormente in questo documentario. Urla e ordini fanno da colonna sonora ad una sequenza di immagini che mostrano un totale azzeramento della personalità, e ci conducono alla cerimonia di premiazione per coloro che hanno superato il corso. Uomini nuovi nascono, completamente plagiati, succubi, automatizzati. E i parenti felici ed ignari di tutto, applaudono fragorosamente.
Il lavoro registico di Brumley sembra, in un primo momento, quasi inesistente. Scavando in profondità però, ci si accorge che la sgradevole sensazione che proviamo durante il film è proprio frutto dello sgomento con cui lo stesso esordiente documentarista americano osserva l’addestramento. La selezione delle immagini ci guida verso un mondo chiuso in se stesso ed ogni singola inquadratura rivela non solo la crudezza di una campo di addestramento militare, ma i concetti stessi di violenza, di rabbia, e allo stesso tempo di rispetto dell’ordine e di remissività inculcati a questi ragazzi. Nessuna intervista, nessun commento, nessun sottotitolo, se non qualche didascalia necessaria per introdurre i vari momenti dell’addestramento: Brumley lascia allo spettatore la libertà di poter giudicare, senza alcun tipo di imposizione ideologica che, in fondo, sarebbe assurda, dato l’argomento del documentario.
Un paio di domande terribili balenano quindi nella nostra mente, tanto che la bocca ha paura di pronunciarle. Gli Stati Uniti ‘esportano’ la democrazia con la guerra e la guerra è combattuta da individui prima spersonalizzati e, successivamente resi automi che rispettano gli ordini. Diciamo automi perché gli animali, spesso e volentieri, possono non rispettare un ordine. Vediamo però immagini di tortura, come quelle agghiaccianti del carcere di Abu Ghraib in Iraq, tanto per citare le più recenti. Sevizie fisiche e psicologiche, così tanto simili a quelle subite da soldati-automi da parte di sergenti istruttori-automi. E’ una catena che non potrà mai spezzarsi, perché da violenza può nascere solo altra violenza. E’questa la democrazia che vogliamo ‘importare’? E’ davvero questa la civiltà che vogliamo emulare?
(Id) Regia, soggetto e fotografia: Cannan Brumley; origine: USA; durata: 100’.
