Eastern Promises - La Promessa dell’Assassino

Come una freccia che segue una direttrice immaginaria, che lambisce ed al contempo trapassa elementi eterogenei accomunati dalla medesima destinazione finale, così il cinema di David Cronenberg raggiunge la sua compiutezza. Il suo sguardo investe macchina da presa, corpo attoriale e scenario rendendoli un unicum che passa sullo schermo. Se non è osmosi si può paralare di feroce amplesso strutturale che dilania senza mai congiungere, sino ad un epilogo finale rigorosamente aperto.
Si è definito Eastern Promises corollario e naturale conseguenza di A History of Violence, ma solo in parte si può accogliere tale definizione. Siamo a Londra e per quanto non sia invasivo l’occhio di Cronenberg nei confronti della metropoli inglese, è immediatamente decifrabile la differenza con il piccolo paesino dell’Indiana del precedente film. La realtà britannica è filtrata attraverso i costumi, le tradizioni, gli usi della mafia russa locale. Ne esce fuori un ritratto “bastardo” le cui dissonanze assecondano e strutturano interamente la pellicola. Continua, è vero, Cronenberg la sua spedizione cognitiva dentro la psiche umana ma in questo caso deve fare i conti con una sceneggiatura (Steve Knight) complessa, rigidamente costruita su dei pilastri da non fare saltare, elementi monolitici intorno al quale costruire l’intera vicenda.
Le chiavi di lettura sono molteplici come i tatuaggi che coprono l’intero corpo di Viggo Mortensen, ognuno di diverso significato e scelto secondo una filologia del simbolismo carcerario russo assai accurata. Partendo dall’idea che bene e male sono concetti assai sfumati, lontani da qualsiasi possibile contrapposizione manicheistica, i personaggi che ne risultano sono solo vagamente definibili e riconoscibili secondo i canoni di un normale giudizio. Tutti restano in bilico tra un’esasperata violenza ed una eco di umanità quasi innocente. Solo Anna (Naomi Watts) rappresenta un sicuro polo positivo, una figura che pur non possedendo lati oscuri (ma segreti si) sembra però attratta dalle ombre, in grado di leggere la luce nascosta, sia essa benevola o malvagia, di ogni singolo protagonista. E non è un caso che il film termini con uno sguardo intimo, quasi accennato, sulla sua figura in un finale che, sebbene lasci volutamente non risolti tanti interrogativi, appare più sereno di quello, tragicamente splendido, di A History of Violence.
Visivamente il film è cruento, indirizzato verso una violenza che lacera il corpo umano, lo mutila, lo scuote sia nel momento iniziale della vita che in quello finale della morte. Mortensen si conferma interprete ideale delle visioni di Cronenberg. Il suo nudo, di cui tanto si è inutilmente parlato, è scandagliato dal regista con chirurgica precisione. I suoi combattimenti restituiscono l’anelito alla sopravvivenza di un uomo in realtà già spento. E sono il volto, sempre contratto, l’incedere lento, ancora prima delle sue stesse parole a rivelarci come Nikolai (Mortensen) sia davvero un’anima morta.
Ci si sente scuotere dalla visione di Eastern Promises. Vi sono condensati tanti frammenti del lungo percorso del geniale autore canadese. È c’è sempre presente quell’interrogativo scomodo sulla natura umana, ancora una volta ridotta, e chissà che non sia davvero così, ad un carnale e privo di possibile decifrazione pastiche biologico.
(Eastern Promises) Regia: David Cronenberg; sceneggiatura: Steve Knight; fotografia: Peter Suschitzky; montaggio: Ronald Sanders; musica: Howard Shore; scenografia: Carol Spier; costumi: Denise Cronenberg; interpreti: Viggo Mortensen (Nikolai), Naomi Watts (Anna), Vincent Cassel (Kirill), Armin Mueller-Stahl (Semyon); produzione: Serendipity Point Films, BBC Films, Focus Features, Kudos Film and Television; distribuzione: Eagle Pictures; origine: USA 2007; durata: ‘100;
