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Eisenstein in Messico

Pubblicato il 5 giugno 2015 da Giovanella Rendi
VOTO:


Eisenstein in Messico

Chissà, forse era destino che due registi per certi versi tanto simili come Eisenstein e Greenaway prima o poi si incontrassero. Non è stata breve la gestazione di questo incontro, come ha spiegato lo stesso Greenaway, che scoprì Eisenstein negli anni Sessanta e lo considera uno dei più grandi cineasti di tutti i tempi. Pochi infatti hanno saputo e voluto esplorare in maniera così approfondita il linguaggio cinematografico, considerandolo una miniera infinita di variazioni artistiche in tutti i livelli di lavorazione, tra cui ovviamente il montaggio, senza mai rinunciare all’idea di intrattenimento. Pochi, inoltre, hanno una formazione così interdisciplinare alle loro spalle, costituita da scrittura, pittura, architettura (“tutti gli architetti amano il cinema” dice ad un certo punto il personaggio Eisenstein nel film), conoscenza delle lingue, che fa delle loro opere un rutilante caleidoscopio che non cessa di sorprenderci.
Quando Eisenstein e Greenaway incontrano il mondo magico e visionario della cultura messicana, dove gli elementi precolombiani si combinano con il cattolicesimo (simboleggiati da una strana figura di azteco cieco e sordo che suona le campane della cattedrale), il risultato è una sorta di esplosione: Greenaway ricostruisce infatti il soggiorno messicano del regista russo nel 1931, da cui ebbe origine quello strano ibrido che è Que viva Mexico, una selezione delle ore e ore di materiale girato e che Eisenstein non ebbe mai modo di montare personalmente. Per questo motivo, Greenaway non presta particolare attenzione al film in lavorazione, anche se ricrea alcune sequenze che esplicitamente vi rimandano, come la presenza di scheletri e maschere mortuarie. Focalizza invece la sua attenzione sullo sconvolgimento che dovette operare sulla sensibilità emotiva di Eisenstein, già esaltato dalla strepitosa accoglienza avuta in Europa e negli Stati Uniti da parte di artisti e intellettuali, un mondo così diverso da quello in cui era cresciuto, dove ci si immagina che sia rimasto stordito dal clima, dai rumori, dalla musica, e soprattutto dai colori, che Greenaway rielabora sfacciatamente in toni quasi fosforescenti.
Utilizzando ogni possibile tecnica cinematografica suggeritagli dalla sua creatività, Greenaway lavora con materiale d’archivio, a partire dai film di Eisenstein, ovviamente, ma anche un susseguirsi frenetico di fotografie del regista russo ma anche di tutti i personaggi famosi che vengono citati (e sono tanti). Si serve dello split screen, di carrelli circolari da far girare la testa, di labirintici movimenti di macchina da presa e montaggi di immagini che si rivelano speculari, insomma “gioca” con il cinema e con lo spettatore così come ci aveva giocato Eisenstein, la cui parte infantile, clownesca e geniale viene continuamente ribadita dalla recitazione comico-malinconica dell’attore finlandese Elmer Bäck. A livello cinematografico, infatti, Greenaway vuole palesemente ricreare lo stordimento che colpisce Eisenstein per la prima volta nella sua vita, nel momento in cui scopre l’importanza dell’amore fisico e spirituale, che sembrava aver sino a quel momento aver sublimato nella soddisfazione narcisistica dell’atto creativo e dell’essere all’apice della gloria (una vera e propria popstar, lo definisce Greenaway) . Eisenstein infatti a Guanajuato ammette la sua sinora latente omosessualità e inizia una storia d’amore e di sesso con la sua guida messicana, Palomino Cañedo.
Trattandosi di Greenaway, il sesso occupa una parte importante del film: lo stesso Eisenstein-personaggio dichiara che “al cinema agli attori chiediamo essenzialmente due cose: scopare e morire”, ma Greenaway non ha nessuna intenzione di mostrare la morte (che in realtà sottende tutto il film, dalla mosca che perseguita Eisenstein palesemente indice della putrefazione della carne avariata della Corazzata Potemkin) ma realizza una lunga sequenza di sesso esattamente al centro del film, costruito infatti secondo una precisa geometria con tanto di prologo ed epilogo giocosamente pleonastici. Non mancano corpi nudi continuamente esposti e il consueto florilegio di peni al vento, ma il tutto si trasforma nell’ennesimo sberleffo perchè la deflorazione del russo ad opera del messicano si trasforma in una lezione storico-politica sui concetti di colonizzazione e di rivoluzione con esiti assolutamente esilaranti.
Molto ci sarebbe da scrivere su questo film, come del resto su tutti i film di Greenaway, che sono prima di tutto saggi applicati delle più diverse teorie e tecniche cinematografiche, delle meravigliose Gesamtkunstwerke, opere d’arte totali. Forse più che in altri casi, si tratta di un atto d’amore nei confronti del cinema e di un uomo che amava il cinema in un luogo magico dove amore e morte sono “gli unici elementi non negoziabili” e l’uno è il solo sberleffo che possiamo fare all’altro, per dimenticare la paura della fine.


CAST & CREDITS

(Eisenstein in Guanajuato); Regia, sceneggiatura: Peter Greenaway; fotografia: Reinier van Brummelen; montaggio: Elmer Leupen; interpreti: Elmer Bäck (Sergei Eisenstein), Luis Alberti (Palomino Cañedo), Rasmus Slatis (Grisha Alexandrov), Jakob Öhrman (Eduard Tisse), Maya Zapata (Concepción Cañedo), Lisa Owen (Mary Craig Sinclair), Stelio Savante (Hunter Kimbrough); produzione: Submarine; origine: Olanda, Messico, Finlandia, Belgio, 2014; durata: 105’


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