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Festa del cinema di Roma 2007 - Hafez - Concorso

Pubblicato il 3 novembre 2007 da Andrea Esposito


Festa del cinema di Roma 2007 - Hafez - Concorso

Il sacro può essere detto quando la Parola lo ha rivelato. Quando non è detto, resta un mistero, una visione. Due dimensioni del sacro che convivono in Hafez, guardandosi e sfamandosi a vicenda.

Hafez è un film liturgico, a metà tra una parabola e una preghiera. Ha nel Corano la sua origine come un fiore la ha nell’albero. Il Libro, la Parola, è la sorgente delle voci e delle immagini che compongono l’articolato mosaico di Hafez. Ne è il riferimento costante, non esterno ma sottostante. In una parola, è la lingua del film.
Le parole del Corano danno vita a tutta la prima parte del film. Così, all’inizio, il sacro non ha mistero e la pellicola sembra agglutinarsi intorno alla parola rivelata e ai riti codificati – in particolare del sufismo – che in varie occasioni e forme ricorrono nel film. Viene evocata una storia che ricorda una fiaba antica, dove Shams-Al-Din Mohammad, appena diventato ‘Hafez’ (titolo appartenente solo a chi conosce a memoria il Corano), viene chiamato dal Grande Mufti per insegnare a sua figlia Nabat, appena arrivata dal Tibet, l’arte di recitare il libro sacro. Presto i versi del Corano diventano poesie d’amore. Nonostante gli sia proibito, Mohammad guarda Nabat e viene cacciato. Lui perde tutto e Nabat sposa un altro uomo, anche lui chiamato Mohammad. Quando Mohammad Hafez guarisce Nabat, misteriosamente ammalatasi, il padre di lei decide di perdonarlo ma gli impone di dimenticare Nabat. Allora, per rinunciare alla poesia e alll’amore, parte per la ‘Ricerca dello specchio’: Dovrà cercare sette vergini in sette villaggi diversi ed esaudire i loro desideri per ottenere che in cambio loro strofinino il suo specchio.

‘La verità è uno specchio caduto dal cielo che si è rotto in mille pezzi. Ciascuno di noi ne tiene in mano un pezzo e crede di avere la verità’, dice a un certo momento un maestro sufi. Lo specchio è il simbolo principe di Hafez. Lo sguardo cinematografico si adegua al viaggio iniziatico di Mohammad, e la struttura del film diventa labirintica. Sfumatamente, assistiamo al passaggio dalla prima alla seconda delle due dimensioni del sacro di cui parlavamo all’inizio, da ‘verbale’ a propriamente misterico. La storia sembra evaporare, lo schermo si intesse di simboli, le immagini e le visioni vanno gradatamente a sostituire la parola.
Il labirinto si allarga, si rispecchia in sé stesso, si duplica, si ripete. Nel labirinto si diramano le rifrazioni dello specchio: appare un secondo Mohammad, il marito di Nabat che ha capito che sua moglie appartiene all’Hafez e parte alla sua ricerca. Compie il suo stesso viaggio, incontra le stesse persone e si sottopone alle sue stesse prove. Entrambi amanti della stessa donna, i loro sono percorsi duplici e sovrapposti, storie nelle storie. Tutto si ripete e si appartiene, senza fine: così esiste un terzo Mohammad, il poeta vissuto realmente, 700 anni fa, gemello e progenitore dell’Hafez del film. E allo stesso modo lo specchio moltiplica Nabat, che si rispecchia nelle vergini di cui Mohammad va alla ricerca. Lo specchio stesso diventa labirinto.
In un moto che via via accelera sempre di più, simboli e immagini invadono interamente il film. Le sovrapposizioni tra elementi e realtà diversi sono continue. La struttura è indecifrabile.
Sembra necessario perdersi: non assistiamo ad una rappresentazione del sacro ma alla celebrazione di un mistero. Si ha la sensazione che nulla debba a questo punto essere svelato, come se nel silenzio scaturito da queste suggestioni si nascondesse la verità della poesia.


CAST & CREDITS

(Hafez) Regia, sceneggiatura e montaggio: Abolfazl Jalili; musica: Yungchen Lhamo, Abolfazl Jalili; interpreti: Mehdi Moradi (Hafez), Kumiko Aso (Nabat), Mehdi Negahban (Shams-Al-Din Mohammad), Hamide Hedayati (Mufti); produzione: First Film Milac Co., Bitters End, Inc.; origine: Iran - Giappone, 2007; durata: 98’


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