FESTA DI ROMA 2020 - Retrospettiva Satyajit Ray - PATHER PACHALI
Si tratta dell’opera prima di Satyajit Ray, nel 1955 trentaquattrenne pubblicista e illustratore di Calcutta nato in una ottima famiglia, di padre scrittore e letterato benestante, con una passione per le immagini. Il film fu in larga parte autofinanziato, recitato da non attori, fotografato da Subrata Mitra che faceva una inquadratura per la prima volta. Una prima volta, dunque, per molti dei collaboratori all’opera, una prima volta che ha la consapevolezza e la maturità di chi possiede un talento innato per l’arte cinematografica. Pellicola rimasta ferma incompleta per un anno e mezzo - le risorse erano esaurite - portata a termine col sostegno dell’amministrazione locale che nominò la spesa come ‘ripristino manto stradale’, Satyajit Ray ha la geniale idea di farlo visionare al regista americano John Houston che se ne innamora e lo proietta a New York al Moma, il Museum of Modern Art. Un inizio da eletti.
Ray produce, scrive e dirige due ore di una piccola storia indiana che assume subito un sapore universale: Apu e la sorella Durga trotterellano per la foresta nei dintorni di casa, liberi e vestiti di poco rubacchiano pomi di guava e mini banane dal frutteto che non è più di loro proprietà, tornano dalla madre che li aspetta, poi vanno via di nuovo. Durga ha il fuoco dell’adolescenza che le brucia dentro, osserva con circospezione le cure delle donne verso la giovanissima vicina di casa, promessa sposa: la cerimonia dell’henné sulle mani, il kajal negli occhi, le perle infilate una a una a formare un gioiello unico. Loro sono poveri, spesso non hanno soldi per comprarsi dolci dal venditore ambulante, restano a guardare con gli occhi sgranati le delizie tanto desiderate. La madre li incalza a non avere atteggiamenti questuanti, vergognandosi della miseria in cui, piano piano, finiscono. Nel frattempo la natura è dura, sferza i suoi attacchi con la potenza di una divinità tragica, i soldi scarseggiano, il pater familias lavora altrove come sacerdote e torna quando può con una modesta quota per andare avanti a sostentarsi malamente.
Girato in un bianco e nero pastoso e denso come un disegno a carboncino, lo spettatore si ritrova immediatamente catapultato nella vegetazione selvaggia, coi piedi scalzi nel fango, il vento nei capelli, il calore sulla pelle: l’anziana zia rasenta il mendicare, sdentata regala alla nipote sorrisi di immensa gratitudine per i doni di frutta morbida da mangiare che la ragazza affezionata le porta di nascosto; la madre, abbigliata superbamente in sari lisi ma pieni di dignità, prepara modeste minestre, cuce, pulisce, più di ogni altra cosa attende il compagno perso in città in cerca di lavori retribuiti, una volta messa via l’ambizione letteraria.
I due fratelli - il piccolo Apu di solo sei anni, e la giovane Durga alle soglie del divenire donna - godono la non contaminazione di uno spazio puro, selvaggio, a contatto con gli elementi primari come l’acqua (un grande torrente), il fuoco, il vento, che possono trasformare tutto da pacifico a mostruoso, da rifugio a inferno in un soffio. In balia degli eventi sono tutti i personaggi, in balia dei propri istinti, in balia del fato, religiosamente accettato con la passività dei buoni di cuore, non remissivamente. Primo film che rompe la consuetudine del cinema tradizionale indiano di girare in teatri di posa, attuando riprese in esterni di ambienti autentici. Affratellato spesso al Neorealismo per via delle comunanze di intenti, il film ha la forza dirompente di un monsone: violento, irrazionale, imprevedibile, sconvolgente come una pioggia che porta fertilità alla terra e morte negli uomini. Tratto da un romanzo di Bibhutibhushan Bandyopadhyay, Pather Panchali è il primo capitolo di una trilogia, detta di Apu, che segue appunto il bambino nella suo percorso personale di crescita e maturità. Presentato al festival di Cannes del 1956, il film riceve un premio minore ma grazie a questa partecipazione mette piede in Europa, dove Ray troverà fondi per produrre i due capitoli successivi.
FOTOGALLERY
(Pather panchali); Regia: Satyajit Ray; sceneggiatura: Satyajit Ray, Bibhutibhushan Bandyopadhyay; fotografia: Subrata Mitra; montaggio: Dulal Dutta; musica: Ravi Shankar; interpreti: Karuna Bannerjee, Kanu Bannerjee, Uma Dasgupta, Subir Banerjee, Chunibala Devi; produzione: Satyajit Ray; origine: India, 1955; durata: 125’.