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Fiction Italia – La leggenda del bandito e del campione

Pubblicato il 4 ottobre 2010 da Marco Di Cesare


Fiction Italia – La leggenda del bandito e del campione

È l’immaginario in quanto tale l’aspetto maggiormente preponderante in questa miniserie trasmessa da Rai Uno, probabilmente non diversamente da quanto di solito accade per la fiction italiana più generalista, emblema di quella grande scatola magica – o, forse, più un Vaso di Pandora senza fondo – che sa avverare i desideri, uno schermo con gli anni divenuto sempre più sottile e, insieme, sempre più capiente.
Perché un prodotto semplicemente medio come La leggenda del bandito e del campione diviene l’emblema di un intero modo di fare televisione, alquanto vecchio e molto caro alle nostre latitudini, la cui unica volontà è quella di perseverare sulla strada di preservare solamente se stessa e la visione che del mondo vuol portare alla ribalta.
Cosa che, in questo caso particolare, è principalmente dovuto alla figura di Giuseppe Fiorello, spesso ormai - almeno per quanto riguarda il prodotto di finzione televisiva – più un personaggio in quanto tale (ossia da considerarsi al di là delle sue capacità recitative), che si avvicina tanto a una moderna forma di divismo che non presenta alcuna divinità da adorare, poiché è caratterizzato da un disegno realizzato seguendo il contorno di un minimalistico basso profilo. Eppure quel personaggio, in quanto mera figura, è più forte di tutto e di tutti, divenendo egli stesso una cifra stilistica, capace come è di illuminare ma, allo stesso tempo, di oscurare tutto quello che lo circonda, grazie all’ombra che proietta. Un’icona che, se utilizzata in maniera superficiale, può diventare un mezzo per l’autocelebrazione della televisione generalista, condotta fino al perdurare nel tempo di una situazione e di una condizione uguali solamente a loro stesse, fondamento di quella che rimane come l’ultimo esempio, nella nostra penisola, di una realtà dell’audiovisivo di stampo ancora realmente industriale.
Tuttavia, negli ultimi mesi, Fiorello era già stato protagonista, con il suo volto e l’aplomb da bravo uomo comune colpito dagli eventi (in un certo senso sempre eroe di quei poveri che percorrono il sentiero che passa attraverso l’immoralità del mondo) di due lavori diversamente interessanti: ossia quel melodramma da interno borghese ottocentesco che è stato Lo scandalo della Banca Romana (andato in onda questo inverno) e il racconto di un procedere alla deriva nella messa in scena di un dubbio del tutto novecentesco, ossia il pregevole Il sorteggio (presentato all’ultimo FictionFest di Roma e non ancora approdato sugli schermi domestici). Due opere, queste, che di certo sapevano aggiungere anche una certa ambiguità alla figura incarnata dall’attore siciliano, protagonista di due racconti più o meno liberi che si accompagnavano a una volontà di raffigurare, in maniera anche critica, mondi passati e forse lontani.
Qui, al contrario, si è assistito (almeno nella prima delle due puntate totali) alla messa in scena di un teorema grazie al quale si è cercato di raggiungere - con la forza - la quadratura del cerchio (laddove i cerchi forse sarebbe più saggio rimanessero tondi, poiché anche il mondo è tondo, da sempre). Tale procedimento di quadratura è stato talmente insistito da condurre, infine, verso un risultato nel complesso alquanto mal riuscito.
Soprattutto perché è il personaggio di Sante Pollastri a risultare troppo idealizzato (al di là di certe, dolorose, puntualizzazioni di cui si potrà leggere nel resoconto della Conferenza stampa sui rapporti tra una realtà ’vera’ e la sua rappresentazione, seppure parziale), incarnando il prototipo del bandito gentiluomo: di nuovo, quindi, una brava persona, però proveniente da una situazione di estremo disagio economico e intrappolata in un destino più grande di lui, cui egli, però, anche per cause legate alla sfera caratteriale, non saprà negarsi. E qui fin troppo si giustifica la violenza dei poveri, nella provincia piemontese del primo Novecento (quando essere povero ovviamente significava non avere da mangiare, senza presentare, pertanto, un aspetto da violenza più ’borghese’ che, al contrario, si può ritrovare con maggiore frequenza oggigiorno), nonostante a Sante faccia da contraltare Costante Girardengo, cresciuto in un ambiente molto simile, ma capace, per vari motivi, di riconoscere il valore del lavoro e del sacrificio.
In particolare, il peccato più grande de La leggenda del bandito e del campione è uno: Pollastri non uccide nessuno, se non un essere spregevole (emblema di un capitalismo succhiasangue che sa rubare ciò che non gli appartiene: le anime come i corpi); ovviamente, però, si tratterà in gran parte di un incidente non voluto. Tutto ciò contribuisce a ricoprire il lavoro di un sapore dal gusto squisitamente ideologico e a tesi, tornando così a quella quadratura del cerchio che tutto soffoca, compresi i destini fin troppo incrociati dei personaggi coinvolti, tra cui i due protagonisti, i quali dirigeranno le loro biciclette verso strade assai diverse (anche se questa risulta essere una figura perlomeno interessante). Deficitario, poi, è anche un altro carattere della struttura narrativa, ossia la commistione di generi diversi (melodrammatico, western e gangsteristico con, in più, interventi di registro macchiettistico), che vivono più di momenti che di una compenetrazione utile per un vicendevole arricchimento, tra l’altro poco esaltati dalla regia un po’ pigra di Lodovico Gasparini.
Quindi del Bandito e del Campione probabilmente rimarrà il ricordo di un intrattenimento medio, popolare nel senso più deteriore del termine. E, alla fine, si potrà essere colti dalla consapevole sensazione di avere assistito più a una forma di ricatto (morale ed estetico) che alla messa in scena di un mondo passato, lontano e, soprattutto, puro.


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