Frankenweenie

Era il lontano 1984 quando un giovanissimo Tim Burton, allora cartoonist promettente della Walt Disney Company, si metteva dietro la macchina da presa per girare il suo secondo cortometraggio come regista: Frankenweenie. Un piccolo gioiellino che in circa venticinque minuti è stato capace di introdurre tutte le costanti del cinema del geniale folletto di Burbank:
i travelling nei titoli di testa atti a presentarci tutti i luoghi cardine in cui da lì a poco si svolgerà la storia;
il vicinato invadente e curioso che abita squallide cittadine di provincia fintamente buone;
protagonisti freak ed emarginati perché percepiti come diversi, mostruosi e minacciosi;
scenografie a metà strada tra dark ed espressionismo tedesco completamente ricostruite in studio e del tutto simili ai plastici che in seguito popoleranno la sua cinematografia;
omaggi continui ai film e ai registi della sua infanzia (Whale, Fisher, Browning ecc.).
Sono passati ben ventotto anni da quel corto e Burton, ormai diventato una icona del cinema pop autoriale a livello mondiale, ha saputo riportare quelle stesse atmosfere davanti la macchina da presa trasformandole in un lungometraggio in stop motion così come originariamente sarebbe dovuto essere. Sembra infatti che all’epoca la Disney non avesse voluto investire così tanti soldi su di un progetto che incuriosiva ma che allo stesso tempo sembrava un po’ troppo ambizioso per un regista di appena ventisei anni alle prese con quello che in tutto e per tutto sarebbe stato il suo debutto alla regia. Oggi invece la storia si è ovviamente ribaltata e l’estroso cineasta californiano è riuscito insieme allo sceneggiatore John August, ormai inseparabile collaboratore fin dai tempi di Big Fish (film che all’epoca segnò una svolta nella poetica di Burton), a mettere in piedi un’opera che non tarderà a diventare un classico del genere ai livelli di Nightmare Before Christmas e Corpse Bride. Ottima la scelta di creare continuità col cortometraggio originale citandolo sin dalla prima inquadratura senza mai copiarlo ed introducendo personaggi e risvolti narrativi nuovi che non solo vanno ad integrarsi alla perfezione ma lo arricchiscono senza stravolgerlo. Su tutti vanno sicuramente menzionati il bellissimo personaggio del professore di scienze, che non a caso ha le fattezze del compianto Vincent Price, la "Weird Girl" e il suo gatto che fa la pupù premonitrice (personaggio ripreso dalla serie animata web di Stainboy e dal libro di filastrocche The Melancholy Death of Oyster Boy), le citazioni di The Bride of Frankenstein e del Dracula con Bela Lugosi e l’introduzione di un finale degno dei film Giapponesi sui mostri nucleari della serie Godzilla. Un compendio di tutto il cinema amato da Burton, unito a continue citazioni e rimandi ai film girati da lui stesso in questi trenta anni dietro la macchina da presa. Con questo film ha voluto ringraziare in maniera intelligente, divertente e divertita tutti coloro che gli hanno permesso una carriera lunga e fortunata scegliendo, tra gli altri, come voci dei suoi personaggi di plastilina: Catherine O’Hara, Martin Short, Martin Landau e Winona Ryder; ovvero coloro che lo hanno accompagnato sin dagli esordi. Un film che chiude un cerchio quindi, che riporta Burton indietro nel tempo, lo ispira con nuova linfa e gli dona la possibilità di aprire un altro capitolo. Chi ha orecchie per intendere...
(id.); Regia: Tim Burton; sceneggiatura: John August, tratta da un’idea originale di Tim Burton; fotografia: Peter Sorg; montaggio: Chris Lebenzon, Mark Solomon; musica: Danny Elfman; scenografia: Rick Heinrichs; produzione: Tim Burton e Allison Abbate; distribuzione: The Walt Disney Company; origine: USA 2012; durata: 87’.
