GENESIS

A quasi dieci anni di distanza da Microcosmos, tornano i due registi-biologi che ci avevano incantato con un superbo viaggio alla scoperta degli insetti e alla comprensione di mondi infinitamente piccoli. Stavolta però tentano l’impresa opposta, ovvero tracciare le linee fondamentali della nascita dell’universo e della vita sulla Terra: impresa ambiziosa compiuta in questo frangente senza l’appoggio di Jaques Perrin, produttore e voce narrante in Microcosmos, regista de Il popolo migratore, narratore nell’edizione francese di Blu profondo, diretto da Andy Byatt e Alastair Fothergill. Un poeta-musicista africano, interpretato da Sotigui Kouyatè, ci accompagna in un viaggio che possiamo sostanzialmente dividere in due parti: la prima, riguardante il Big Bang e la formazione di terra, fuoco ed acqua, potrebbe in un primo momento ricordare Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, ma mentre quest’ultimo lavoro era una descrizione delle forze della natura esclusivamente per quanto riguardava sperimentazioni sull’immagine in relazione alla colonna sonora del compositore Philip Glass, in questo caso i due registi francesi, tramite immagini di vulcani e di nubi cariche di piogge impetuose, cercano sia di ricostruire l’idea degli agenti climatici sul nostro pianeta, sia di far riflettere lo spettatore sul fatto che la terra sia tuttora in movimento, in continua evoluzione. La seconda parte di Genesis è invece incentrata sull’attenta osservazione degli animali, in particolar modo di quelle specie (anfibi, rettili e, come nel film precedente, insetti) che più possono rendere l’idea di come fossero i preistorici abitanti del nostro pianeta. Il livello tecnico della pellicola è inarrivabile: la cura maniacale del particolare, la resa perfetta delle immagini assolutamente non ritoccate in post-produzione, la capacità di saper collocare lo spettatore in una dimensione diversa e al contempo così simile a quella dell’uomo, rendono appena impercettibile la distanza tra l’uomo stesso e la natura che lo circonda. Ma ciò che rende Genesis qualcosa di più di un documentario, è, paradossalmente, l’assenza di linguaggio scientifico, cui supplisce invece una narrazione quasi fiabesca e poetica che diventa, però, sia punto di forza che unico difetto del film. Il racconto del poeta-musicista infatti è ricco di metafore, secondo il metodo della tradizione orale africana. Affascinante, ma forse esagerato sul piano della figura retorica, tanto da farci venire in mente una frase che Perrin recitava nella scarna sceneggiatura di Microcosmos: “Per penetrare questo mondo è necessario ascoltare i suoi mormorii restando in silenzio”. In effetti per tutto il resto del film non sarebbe più stata proferita parola. In questa nuova opera la voce del narratore a volte distrae, a discapito di qualche metafora di troppo. I due autori avrebbero potuto esclusivamente far leva sulle geniali rappresentazioni di eventi impossibili da filmare o da descrivere a parole: il Big Bang è rappresentato dal levitare di polvere di vetro alzata in aria dal soffio del protagonista; l’accoppiamento è metaforicamente rievocato da due piccoli grumi di schiuma che si fondono; la vita stessa, da una bolla di sapone piena di fumo. Queste ed altre geniali trovate introducono immagini che mostrano come gli animali in fondo abbiano stessi codici di comportamento dell’uomo, come il combattere per il territorio, per la ricerca di cibo, o per accoppiarsi (da antologia la scena dei ragni dalle gambe lunghe e dei cavallucci marini). Il film però, al di là della sacralità della narrazione, tende comunque a rappresentare la realtà naturale così com’è, e gli autori si rifanno alla teoria del Big Bang per quanto riguarda le origini dell’universo e della materia, e al darwinismo per quanto concerne il processo evolutivo delle specie animali. Questo non rende Genesis un’opera che esalta il materialismo e l’unicità del visibile, tanto che Marie Perennou in conferenza stampa tende a precisare che i loro film sono apprezzati sia da credenti che da atei, perché presentano esclusivamente la realtà vista dallo sguardo carico di meraviglia di un bambino, non negando che ci sia qualcosa di superiore, ma anzi, trasferendo una sorta di ‘spiritualità materialistica’ all’interno dei loro lavori. I due registi-biologi, appassionati di cinema d’autore, si distaccano da una certa produzione prettamente documentaristica (come La marcia dei pinguini, tra poco nelle sale), in quanto la loro concezione di cinema inteso come forma artistica, rende il loro lavoro di biologi, non un semplice agglomerato di nozioni scientifiche, ma un modo per manifestare sia il continuo meravigliarsi di fronte alle creature della natura, sia una grande abilità nel saper adattare le loro conoscenze cinematografiche ad assurdi ‘interpreti’: Nuridsany e la Pérennou hanno impiegato quasi tre anni per scrivere la sceneggiatura e scegliere il singolare ‘cast’, e questo solo dopo dieci anni di studio su come affinare la tecnica del precedente lavoro, peraltro già eccellente. Microcamere in Motion Control per mantenere a fuoco gli animali e i loro movimenti (soprattutto nel caso di quelli più piccoli), ecografie in 4D, speciali telecamere che filmano la nascita di un pulcino di struzzo inserite direttamente dentro l’uovo, e addirittura un set specifico per insetti fatto costruire nella casa in campagna dei due registi. Anche la colonna sonora e la scelta dei suoni supporta le immagini, rendendole straordinariamente simili a quelle di film che vedono uomini come attori. Ottima anche la scelta del bravo protagonista, che essendo tra l’altro originario del continente considerato la ‘culla dell’umanità’, rende uniformi e coerenti l’uno con l’altro i vari temi affrontati nel film, con la sua recitazione quasi profetica (sicuramente penalizzata dal doppiaggio). Come nel precedente Microcosmos, troviamo i soliti titoli di coda con i nomi degli animali visti nel film, in cui capeggiano i nomi di ‘interpreti’ ancora più singolari (tra i tanti, vengono citati i cristalli di vitamina C, spermatozoi, perioftalmi e via dicendo). Come ogni vita, il film finisce con il tema della morte, ma è proprio qui che Genesis raggiunge il massimo per quanto riguarda l’intensità; è in questo istante che diventa davvero un piacere lasciarsi cullare da questo splendido materialismo di fondo, lontano da qualsiasi credenza religiosa: “Un giorno restituirò alla terra questa materia di cui sono fatto”, recita il protagonista, e dopo aver mostrato l’immagine velocizzata di un frutto che marcisce e che torna a fondersi con la terra, i due registi ci regalano splendide panoramiche di centinaia di albatros che volano poco più in alto della superficie di un oceano in cui nuotano in branco migliaia di pesci. La morte è un processo naturale che non deve spaventarci, e sapere che anche la scienza possa confortare l’uomo dall’innato terrore di morire e dalla paura che la vita non abbia un senso (conforto che solo una fede religiosa può dare), rende evidente nel finale quale sia effettivamente il senso della nostra vita e della nostra morte: quello di diventare qualcos’altro, di essere immortali e viventi in ogni cosa del mondo. Genesis forse non ci chiarirà da dove veniamo, ma è uno splendido e raro esempio di cinema che informa, meraviglia, fa riflettere e commuove. Bellissimo.
[Ottobre 2005]
Cast & Credits
Regia: Claude Nuridsany e Marie Pérennou; sceneggiatura: Claude Nuridsany e Marie Pérennou; montaggio: Marie Pérennou; produzione: Les Films Alain Sarde, Les Films de la Véranda; distribuzione: Lucky
