Géographie Humaine - Festival dei Popoli

La geografia evocata dal titolo è quella delle grandi migrazioni verso la Francia - dalle ex colonie in primo luogo - ma anche quella della Gare du Nord di Parigi e della variegata umanità che la abita. Claire Simon affronta infatti l’articolata topografia della stazione seguendo una traiettoria ben precisa e piuttosto lineare, percorribile anche fisicamente all’interno della struttura. Avvezza al documentario, qui per la prima volta lavora con persone sconosciute.
La regista torna infatti al Festival dei Popoli - che nel 2008 le aveva dedicato una retrospettiva - con un documentario che fa propria la lezione zavattiniana, pedinando lacerti di storie vere per poi lasciarle di nuovo, non prima di aver fatto un tratto di strada insieme. La Gare du Nord è nota per dar luogo a una grande mescolanza sociale, del resto la stazione è per definizione un luogo totalmente aperto, in cui tutti possono entrare e uscire liberamente. Zona di frontiera, dentro e fuori dalla città allo stesso tempo, è per la cineasta francese lo spazio più democratico, dove tutti - dal presidente della Repubblica alla gente comune - sono di passaggio. Situata al centro della città, è «un luogo medievale», «la più grande piazza pubblica», nel senso di posto in cui tutti si possono incontrare e proprio per questo si prestava ad essere la location ideale in cui incontrare l’altro, piuttosto che in centri d’accoglienza e situazioni analoghe, nelle quali gli immigrati possono essere in qualche modo ghettizzati.
Se l’idea di questo documentario nasce per la regista dalla stesura di una sceneggiatura di finzione, qui si tratta però di un lavoro totalmente diverso: il concetto di fondo è piuttosto quello di affrontare le storie di vita reale come dei racconti letterari, portando la fiction al documentario e non viceversa. Géographie humaine è il primo capitolo di un trittico che comprende appunto anche un film di finzione e un web-doc. Dalla cospicua messe di materiale girato - è evidente il grande lavoro di montaggio che ha comportato - emergono soprattutto le storie di immigrati o dei figli di immigrati, con le difficoltà dell’integrazione, il razzismo, i sogni e le aspirazioni deluse. Quantitativamente minori, ma altrettanto interessanti, le storie dei francesi incontrati tra i binari. Ad accomunare gli uni e gli altri è il viaggio come cammino verso la realizzazione di un sogno, di un obiettivo. Fa da controcanto a queste voci proiettate verso il futuro, la malinconica nenia di chi vive nel rimpianto del passato. Géographie humaine è anche l’occasione di dire che tutti i protagonisti sono in fondo come Ulisse: tutti hanno lasciato la propria casa per andare lontano e spesso sognano di farvi ritorno. Il film, memore delle Lettere persiane (1721) di Montesquieu, nasce anche dall’idea di cogliere uno sguardo “da lontano” sulla Francia di oggi, paradossalmente ricorrendo a un luogo “al centro” di essa.
Considerato che il treno dai fratelli Lumière ai giorni nostri è uno dei topos più ricorrenti nella storia del cinema mondiale e che il pedinamento del personaggio della lezione neorealista è un espediente narrativo fin troppo inflazionato, l’idea alla base del film è quanto di più banale ci possa essere al cinema. Ma sono le storie che ci viene dato di conoscere ad essere nuove: vite come tante, apparentemente uguali e sempre diverse, sono proprio queste, la realtà con la forza della sua evidenza in ultima analisi, a conferire alla sostanza del film quella freschezza che manca alla forma. È questo che permette a Géographie humaine di sostenere tutto sommato indenne i suoi 101 minuti di svolgimento. Dopo le fastidiose panoramiche a schiaffo dell’incipit, il film trova presto una regia più stabile che, pur non brillando per originalità, è senz’altro funzionale al racconto.
Alla stazione - spiega l’amico Simon, novello Virgilio nei gironi della Gare du Nord - tutti passano velocemente e parlano come se fosse l’ultima volta, raggiungendo un’insolita pregnanza di senso nella sintesi improvvisata delle poche parole pronunciate. Per lui, figlio di immigrati algerini, il documentario dell’amica si trasforma in una sorta di film nel film: quello della sua vita, speculare a molte delle storie sentite. In questo senso è l’interlocutore ideale per i volti interrogati dalla macchina da presa, nel desiderio di «mettere in risalto la differenza tra chi si è messo in viaggio e chi ha ereditato un viaggio che non ha scelto», come lui: 2 passaporti, nessuna patria e il sentimento di un esilio permanente.
Tante storie in una, raccontate attraverso una formula usurata ma che, dobbiamo ammetterlo, funziona ancora, forte della scoperta implicita nell’incontro perché, come direbbe uno degli impiegati che ci lavorano: «à la Gare du Nord, tant qu’on n’a pas parlé avec quelcun on se trompe», nella misura in cui non si è parlato con qualcuno ci si inganna su quella persona.
(Geographie humaine) Regia: Claire Simon; fotografia: Claire Simon; montaggio: Catherine Rascon, Luc Forveille; musica: Miles Davis; produzione: Les Films d’Ici; origine: Francia; durata: 101’.
