X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Gran Torino

Pubblicato il 16 marzo 2009 da Luca Lardieri


Gran Torino

Ormai non ci sono dubbi: Clint Eastwood non sbaglia più un colpo ed è entrato di diritto nel gotha dei registi che hanno fatto e continuano a fare la storia della settima arte. Ha ereditato la visione malinconica e poetica di Sergio Leone, la lucidità e il senso del ritmo di Don Siegel e ha mescolato il tutto con la delicatezza e la semplicità del proprio tocco, trovando un proprio ed inconfondibile stile. Eastwood ci racconta storie apparentemente semplici, lineari, che vanno dritte al cuore del tema che vogliono trattare, senza troppi fronzoli e senza spostare oltremisura lo sguardo dello spettatore da ciò che gli vuole mostrare e dalle tesi che vuole dimostrare. Non è mai prolisso, né mai eccessivamente legato a movimenti di macchina troppo artefatti, lasciando maggior spazio al volto e alle azioni dei propri personaggi. Personaggi che pur vivendo in epoche diverse e raccontando storie lontane tra di loro, sembrano essere la reincarnazione dei mitici cowboy di frontiera che spesso il cineasta due volte premio oscar si è trovato ad interpretare nell’arco della sua carriera di attore. C’è chi dice che il cinema di Eastwood è troppo classico, troppo definito, che il suo punto di vista è fin troppo presente e pronto a “violentare” lo sguardo dello spettatore per condurlo verso le proprie, “inevitabili” conclusioni. C’è chi lo liquida velocemente dicendo che è un regista troppo classico e chi addirittura gli appone la sbrigativa etichetta di “fascista” per la presenza di eroi (o antieroi) profondamente americani, sempre pronti ad imbracciare un fucile o a estrarre una pistola. Eastwood negli ultimi anni, invece ci ha parlato di eutanasia (Million Dollar Baby), ci ha mostrato una battaglia chiave della II Guerra Mondiale, quella di Iwo Jima, dal punto di vista di vincitori e vinti (Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima), un corpo di polizia, quello della L.A. a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta, corrotto e avvezzo all’abuso di potere (Changeling) e ora affronta con liricità e sottilissima ironia il tema del razzismo e della “strana” periferia americana con Gran Torino.

Walt Kowalski (Clint Eastwood) è un vecchio, reduce della Guerra di Corea, che dopo più di cinquant’anni passati a lavorare in una catena di montaggio Ford, vive la propria pensione sorseggiando birra in veranda e dilettandosi in piccoli lavori Fai da te. Vedovo, burbero, solitario e con figli e nipoti lontani anni luce dai valori con i quali è stato educato, tipici di una certa America Old Style, si ritrova a dover difendere il proprio "territorio" (così definisce casa sua), ultimo baluardo della "razza bianca" in un quartiere ormai completamente invaso da cinesi, da un gruppetto di giovani teppisti che vogliono rubare la sua macchina; una splendida Ford Gran Torino del 1972. Inizialmente prevenuto nei confronti dei suoi vicini di casa, a poco a poco si lascia incuriosire e rapire dal loro mondo e prende sotto la propria ala il giovane Thao, ragazzo in cui vede terreno fertile per lasciare una traccia del suo mondo ormai svanito e che decide di difendere dalla gang che vuole portarlo all’interno delle proprie fila. Proprio questa sua decisione e la ferma volontà della famiglia del ragazzo di condurre una vita onesta ed il più possibile integrata con la società nella quale vivono, scatenerà un piccola guerra che indurrà Walt a prendere una decisione estrema.

Un film sorprendente nella sua semplicità. Dialoghi serrati ed in alcuni casi molto divertenti, gustose strizzatine d’occhio e rimandi a un certo cinema di frontiera e un bellissimo ritratto del Meltin’ pot americano, sono alla base di questo riuscitissimo film che avvince e convince per tutte e due le ore della propria durata. Ancora una volta tutte le ingenuità ormai tipiche del cinema Eastwoodiano vengono accettate e metabolizzate fin da subito, tanto sono chiare e onestamente dichiarate dal regista di San Francisco fin dal primo fotogramma della propria pellicola. Poco importa infatti se i cattivi sono troppo cattivi e i buoni troppo buoni, se vuole “costringerci” ad empatizzare con i suoi personaggi o se cerca continuamente atmosfere intimiste da sottolineare con una colonna sonora minimalista e allo stesso tempo commovente. Tutto ciò lo avevamo già accettato di buon grado con la grottescamente abominevole famiglia di Hilary Swank in Million Dollar Baby, lasciandoci rapire e sconvolgere dalle passioni e dalla dolcezza sussurrate da Eastwood stesso con il suo paterno “Mo Cushla”. Proprio come adesso Walt fa con Taho insegnandogli a comportarsi da uomo, inveendo e sproloquiando con gli altri, ma sempre con rispetto (bellissima a tal proposito la scena di loro due dal barbiere italiano). Non a caso Gran Torino ha molto in comune con Million Dollar Baby da un punto di vista narrativo, a metà tra film di formazione e testamento delle ultime volontà del settantanovenne regista, e non a caso ambedue i film vedono impegnato Clint nel ruolo di protagonista. Quasi volesse rafforzare maggiormente il messaggio che vuole divulgare, utilizzando il proprio volto come tavolozza sul quale lasciare il proprio colore con la macchina da presa. In poche parole un film classico, ben fatto, lucido ed imponente e quand’è così, ben vengano i film classici.


CAST & CREDITS

(id.) Regia: Clint Eastwood; sceneggiatura: Nick Schenk; fotografia: Tom Stern; montaggio: Joel Cox e Gary Roach; musica: Kyle Eastwood e Michael Stevens; interpreti: Clint Eastwood (Walt Kowalski), Christopher Carley (Padre Janovich), Bee Vang (Thao Vang Lor), Ahney Her (Sue Lor); produzione: Warner Bros. e Village Roadshow Pictures; distribuzione: Warner Bros.; origine: USA, 2008; durata: 116’.


Enregistrer au format PDF