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Hamdan - Festival dei Popoli

Pubblicato il 7 dicembre 2013 da Elisa Uffreduzzi
VOTO:


Hamdan - Festival dei Popoli

Hamdan racconta la vita dell’omonimo protagonista, militante palestinese per quindici anni recluso nelle carceri israeliane dei territori palestinesi occupati, in condizioni di volta in volta più disumane. La narrazione inizia con filmati di repertorio sulle origini del conflitto arabo-israeliano, dalle votazioni che portarono all’istituzione del moderno stato di Israele (fondato nel 1948), alla conseguente espulsione coatta dei palestinesi residenti nel territorio designato, fino al conflitto del 1973. Perché, se tutt’oggi le tensioni in quell’area e nei territori limitrofi sono spesso in primo piano sui media internazionali, è tanto più necessario ricordarne le radici, per non dimenticare le ragioni che ancora accendono continui focolai.

Con un lungo monologo – voce over su un campo completamente nero – Hamdan si presenta: i primi anni in Siria; gli studi giovanili di letteratura inglese a Damasco; l’inizio della militanza; l’attentato kamikaze di Omar, un giovane da lui reclutato nel movimento di rivolta; il proprio arresto e di lì l’inizio di un incubo durato quindici lunghi anni, tra torture, condizioni igienico-sanitarie insostenibili e lunghe, interminabili ore vuote. In carcere la vita si riduceva alle esigenze primarie: mangiare, vestirsi, pulire gli utensili e, quand’era fortunato, vedere i parenti, spiega il protagonista, il cui volto si rivela in primissimo piano solo alla fine di quel lungo campo nero. Un espediente narrativo che convoglia tutta l’attenzione dello spettatore sulle parole del racconto, per poi restituirgli un’identità. Analogamente più avanti ci verranno mostrati i volti dei suoi compagni di cella della prima prigione incontrata.

La raccapricciante storia di Hamdan, simbolo di tante altre vicende consimili, avviene quasi tutta mediante la medesima tecnica: la voce over del protagonista con una calma surreale ripercorre le tappe di un vissuto difficile e sofferto, senza patetismo ma con lucida fermezza, mentre sullo schermo si susseguono lunghi piani sequenza di scorci fatiscenti e case distrutte. Con quest’ordito lento e costante s’interseca la trama dei racconti in mezza figura dello zio di Omar, testimone dell’attentato, e quello della madre di Hamdan. Ciascuno con pazienza e senza sentimentalismi espone la propria esperienza, le difficoltà incontrate, la sofferenza.

Il documentario di Martín Solá è disseminato di soluzioni registiche semplici quanto efficaci. Come il raccordo sul nero a mascherare un’ellissi nell’incipit; il lento carrello in avanti lungo il corridoio della prigione raccontata dalla voce fuori campo e il carrello combinato con una panoramica che nel finale segue il primissimo piano di Hamdan, tornato in conclusione del film a chiudere un disegno circolare. Quell’ultimo movimento di macchina scopre un paesaggio desolato e fatiscente: sono i territori palestinesi di oggi, una prigione a cielo aperto dove le attività umane – commenta Hamdan fuori campo – si limitano ancora una volta alle funzioni primarie: mangiare, vestirsi, pulire utensili.

Senza santificare il protagonista – viene denunciata fin dall’inizio la sua partecipazione al movimento dei dissidenti, l’addestramento nell’utilizzo di materiale esplosivo, l’attività di reclutamento dei ribelli – Martín Solá ha il merito di riportare in evidenza una realtà scomoda della scena internazionale recuperandone le radici; di raccontarla dalla parte dell’interlocutore più debole e insieme di farlo con una formula registica che rifugge la monotonia con equilibrio.


CAST & CREDITS

(Hamdan) Regia: Martín Solá; sceneggiatura: Ali Mahmoud Hamdan Sefan, Martín Solá; fotografia: Gustavo Schiaffino; montaggio: Martín Solá, Alejandro Nantón, Lucas Peñafort; produzione: Association Ânûû Rû Âboro; origine: Argentina, Nuova Caledonia, Palestina; durata: 75’.


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