Hayuta ve Berl - Epilogue

Comincia come un sommesso canto sulla vecchiaia, Epilogue, lo straordinario film di Amir Manor.
Comincia con un abbraccio stanco, di prima mattina, sul letto, frutto di abitudini incancrenite eppure ancora vive, ancora sbozzate di tenerezza.
Comincia coi gesti lenti di un inizio di giornata, quando anche il semplice alzarsi dal letto, senza un caffè, si riempie di scricchiolii dolenti e pieni di incertezze.
Prosegue con una doccia che lava via il sopore della notte, ma non rigenera e a stento rinfresca mentre un parco movimento di macchina verso il basso si porta impresso il peso di un’altra giornata che non potrebbe essere poi così diversa dalle precedenti piene di amarezza e stanchezza.
Continua con lui che scende le scale, mentre va a rubare dalla buca della posta del vicino un giornale pieno di promesse infrante e le notizie di un mondo che non si capisce più anche se in gioventù si era tanto lottato per costruirlo.
E si incaglia in una visita da parte dei servizi sociali che obbliga la coppia ad esercizi incomprensibili volti a capire se i due sono ancora in grado di affrontare i piccoli esercizi quotidiani come chinarsi e raccogliere quelle illusioni che il tempo ha fatto cadere.
Il regista ha mano ispirata nel rendere il senso dei vuoti: segue per le scale incrostate dall’età i passi trascinati dell’uomo (un altro movimento verso il basso della macchina da presa che si porta dietro il ricordo di Kieslowski) e si adegua ai silenzi dell’abitudine riempiendoli di vuoto e di dolore.
Interpreti eccezionali assecondano questo mesto Requiem d’agonia che da solo, in un corto, farebbe gridare al capolavoro, ma poi rilancia la posta in chiave politica.
L’uomo, rimasto solo a casa, chiama alla radio e, con rabbia, dichiara ad un troppo ciarliero conduttore che non è questa l’Israele che aveva cercato di costruire quando ancora le forze glielo permettevano. Ad ogni passo, cercando di far proseliti nel suo ideale movimento che chiama non senza orgoglio "The circle", dice a chi gli ripete che il paese ormai è andato avanti in cerca di futuro che quel futuro non ha una direzione chiara e che Israele ha venduto i suoi sogni nel momento stesso in cui ha abbracciato il capitalismo e dimenticato il socialismo dei kibbutz. Naive, figlio d’altri tempi, va in ospedale a vedere gli amici morire e nel frattempo spera di non essere consegnato anche lui a tanta umiliazione.
Nel frattempo la moglie esce a prendere le medicine, ma non ha abbastanza soldi e si chiude in un cinema a vedere Indiana Jones, divertendosi tra le lacrime di un passato cui è rimasto troppo poco futuro.
La coppia vive in angoscie delicate l’orrore di una condizione beckettiana in cui non si può vivere senza l’altro, ma neanche si può andare via. Gli errori del passato vengono rinfacciati nel dolore di un amore che, come brace, resta sotto pelle sempre a chiedere scusa di se stesso.
Ritratto psicologico finissimo, ma anche compianto politico di un paese che non ha saputo mantenere le sue promesse e in cui i figli cercano futuro altrove, lontano dall’albero da cui sono caduti, Epilogue è un notturno per piano forte in cui le due mani seguono arabeschi distanti che si cercano l’un l’altro ad ogni passo.
Serrato nel suo lento dipanarsi, il film mette in scena continue ricerche trovando sempre la forma di brevi incontri con un mondo di altri che non è indifferente, spesso partecipa (il farmacista, la maschera del cinema, il sarto che noleggia vestiti), ma che non capisce abbastanza. Perchè il nostro dramma, sempre è ad ogni passo, è quello dell’immigrato russo che cerca da giorni una donna con un vestito rosso consapevole che lei deve essersi cambiata.
E in questo mondo non indifferente, ma condannato alla solitudine delle piccole strette di mano, delle segreterie telefoniche che riempiono il vuoto di una casa e dei gesti delicati come l’ultimo pezzo di pizza offerto a negozio già chiuso, il regalo più grande è la straordinaria, splendida scena madre a lume di candela in cui il sapore d’altri tempi della fotografia dona ai personaggi l’ombra di un’altra giovinezza.
(Hayuta ve Berl); sceneggiatura: Amir Manor; fotografia: Guy Raz; montaggio: Iris Ozer; musica: Ruth Dolores Weiss; interpreti Yosef Carmon (Berl), Rivka Gur (Hayuta), Efrat Ben Zur, Itay Turgeman, Shai Avivi, Natan Zehavi, Yaron Brovinski, Hagar Ben Asher, Rotem Keinan, Efrat Aviv; produzione: Norma Productions; origine: Israele, 2012; durata: 96’
