Venezia 69: considerazioni finali
A due giorni dalle premiazioni che hanno concluso il sessantanovesimo Festival di Venezia – edizione che ha segnato il passaggio di testimone alla direzione da Marco Müller ad Alberto Barbera – continuano a circolare speculazioni sulle reali intenzioni della giuria di quest’anno, presieduta da Micheal Mann e con Matteo Garrone come unico rappresentante italiano. La voce che corre, alimentata da testate americane come l’Hollywood Reporter, è che alcuni membri della giuria avrebbero voluto dare tutti i principali premi – leone d’oro, d’argento e coppa volpi – a The Master di Paul Thomas Anderson, per scontrarsi quindi con il regolamento del Festival, che prevede la non cumulabilità di premi per il film che vince il Leone d’oro. A rincarare la dose di illazioni su un dibattito acceso fra i giurati è stata certamente la conferenza stampa finale, in cui Mann ha tenuto così tanto a mantenere segreto il processo decisionale da imporsi sulle stesse domande poste al giurato italiano, interpellato sul perché nessuno dei film nostrani in concorso – E’ stato il figlio di Daniele Ciprì, Bella Addormentata di Marco Bellocchio e Un giorno speciale di Francesca Comencini – abbia vinto un premio di rilievo. Unici vincitori italiani sono stati infatti Ciprì, con il premio al miglior contributo tecnico per la fotografia del suo film, ed il giovane attore Fabrizio Falco, che ha ricevuto il premio Mastroianni dedicato agli esordienti per il suo ruolo in E’ stato il figlio ed in Bella addormentata.
Senza dimenticare che alcuni dei titoli italiani più interessanti sono stati visti fuori dalla competizione ufficiale: ad esempio Gli Equilibristi di Ivano de Matteo o Bellas Mariposas di Salvatore Mereu, entrambi in Orizzonti.
Comunque siano andate le cose, varrà però notare che tutte le polemiche – a differenza del 2010 in cui il leone d’oro andò all’immeritevole Somewhere di Sofia Coppola – sono sterili: a vincere il premio principale è stato il maestro Kim Ki-Duk, con l’amatissimo e bellissimo Pieta, e l’indignazione generale per l’esclusione degli italiani dal podio denota più il campanilismo provinciale che ci contraddistingue che un complotto anti-italiano. Venezia è un Festival internazionale, e non si vede perché venga considerato una sorta di diritto divino il fatto che in casa nostra almeno un premio di spicco debba andare ad un film made in Italy. Molto più semplicemente, nessuno degli italiani in concorso era di fatto all’altezza dei film prediletti dalla giuria: Bellocchio è uno dei più grandi registi di sempre del nostro cinema, ma Bella addormentata è un film che mette in campo storie che restano sulla superficie delle cose e personaggi – ad esclusione forse dei senatori interpretati da Servillo e Roberto Herlitzka – poco convincenti. Il film di Francesca Comencini è certamente un commento interessante su uno dei temi caldi dell’Italia contemporanea, la svendita di corpi e dignità femminili sull’altare del dio spettacolo, ma i suoi pregi si fermano qui, e basterà rivedere Bellissima di Luchino Visconti per ricordare che tanto tempo fa avevamo già fatto e visto tutto, e molto meglio di così.
Si distingue invece l’esordio “solista” di Ciprì, con il grottesco e poetico allo stesso tempo E’ stato il figlio, che affonda le sue radici nel cinismo dei lavori televisivi del regista in coppia con Franco Maresco e nei due capolavori cinematografici dei due – Totò che visse due volte e Lo zio di Brooklyn – ma recuperando la dimensione della storia, della narrativa, ed unendola ad un’empatia più viva con i propri personaggi. Fa quindi piacere che il regista siciliano abbia portato a casa qualcosa, ma senza che per questo si possa passare sotto silenzio che almeno un film meritava il premio tecnico per la fotografia più di E’ stato il figlio: La cinquième saison dei belgi Peter Brosens e Jessica Woodworth, una lezione di poesia al cinema, merito soprattutto della fotografia di una bellezza unica.
Il premio speciale della giuria va, coraggiosamente e meritatamente, al film dello scandalo: Paradise: Faith, secondo capitolo della trilogia dell’austriaco Ulrich Seidl, quello della sequenza della masturbazione con il crocifisso, ma anche dell’orgia incensurata e della furia iconoclasta contro crocifissi e immaginette del papa (per amor di cronaca: applausi scroscianti e ben pochi fischi alla proiezione in Sala Grande). Il film che insieme a Bella addormentata – quest’ultimo per puro pregiudizio, essendo un film conciliatore e per niente accusatorio nei confronti della fede cattolica – ha attirato al Lido i manifestanti di Militia Christi e che per una sorta di giustizia divina è premiato proprio nell’Italia del Vaticano.
Meritata anche la Coppa Volpi femminile, che va alla giovanissima attrice israeliana Hadas Yaron, protagonista del primo film ebreo ortodosso della storia del cinema: Fill the Void.
Era scontato, poi ,che la Coppa Volpi maschile andasse a Joaquin Phoenix (anche se si è scelto l’ex aequo col coprotagonista Philip Seymour Hoffman) per la sua parte in The Master: uno di quei ruoli che assegna automaticamente un posto nell’olimpo degli attori a chi li interpreta. Così come il film di Paul Thomas Anderson, nonostante alcune imperfezioni, è un exploit registico che non poteva restare senza premi. Peccato solo che sugli schermi italiani non lo si potrà vedere nella spettacolare versione originale in 70 mm.
Una menzione per un film escluso da ogni premio (ma forse non poteva essere altrimenti), Spring Breakers di Harmony Korine, un film amato o odiato senza mezze misure; analisi spietata della degenerazione dell’American Dream condotta proprio attraverso alcune delle sue manifestazioni più aberranti: le pratiche dello Spring break – luogo del rimbecillimento di massa – le stelline del Disney Channel e così via. Tutto accompagnato da una regia magistrale e da citazionismo selvaggio.
Per alcuni, James Franco che, con treccine gangster e dentiera d’oro, canta al piano Britney Spears attorniato da ragazze in bikini che ballano coi mitra in mano, resterà sempre una delle scene madri di questo Festival.
Si è molto parlato del fatto che il concorso di quest’anno non presentasse film indimenticabili. Ma in verità la qualità media è stata piuttosto alta, e non è colpa di nessuno se registi attesissimi come, su tutti, Terrence Malick con il suo To the Wonder - o Brian De Palma con Passion e Takeshi Kitano con Outrage Beyond - abbiano portato al Lido film per niente all’altezza delle aspettative.
Sotto la nuova direzione di Barbera sono state prese alcune scelte condivisibili: eliminare quel ricettacolo di film a caso che era Controcampo italiano – che sviliva il nostro cinema piuttosto che valorizzarlo – e snellire il programma a costo di perdere un po’ di affluenza. Forse Venezia 69 non resterà negli annali della storia della kermesse, ma ci sono le basi per poter ben sperare per il settantennale dell’anno prossimo.