Home (Conferenza stampa)

Ci troviamo in una sala dell’Hotel de Russie di Roma per assistere alla presentazione del sorprendente Home, presenti la giovane regista Ursula Meier e la protagonista, la dama del cinema francese: Isabelle Huppert.
Mi scusi, ma non sarebbe stato più adatto un finale con un suicidio collettivo?
U.M. in effetti il film è stato costruito proprio per concludersi così, cioè con il suicidio collettivo ma, dato che io sono comunque una persona abbastanza ottimista, il finale è stato diverso.
Diciamo che l’idea che avevamo quando abbiamo pensato al film era di costruire una commedia leggera che poi scivolasse lentamente verso l’angoscia, quasi verso l’orrore, in un clima che facesse pensare a Hitchcock o alle prime opere di Roman Polanski, quindi con un mix di realismo e di un surrealismo anche quasi un po’ da film dell’orrore. Questo insieme di generi rende Home una pellicola molto singolare, dove si alternano i toni della commedia, del grottesco, quasi addirittura della fantascienza quando gli operai della manutenzione cominciano a lavorare con le tute.
Vorrei chiedere alla signora Huppert dove nasce la sua predilezione verso copioni con personaggi sempre così estremamente provocatori, sgradevoli, estremi.
I.H. Trovo che il personaggio di questo film, Marthe, almeno all’inizio, non sia per nulla estremo, anzi sia del tutto comune, banale. Home è una sorta di parabola, di favola, una metafora che non presenta dei personaggi dal punto di vista psicologico, ma piuttosto una situazione molto particolare. Del personaggio mi ha interessato proprio la sua banalità e la sua sfasatura rispetto alla realtà: ciò è dovuto al fatto che la Meier ha scelto un dispositivo di tipo teatrale, per cui si ha quasi l’impressione di vedere questa famiglia su di un palcoscenico mentre guarda il mondo passare davanti a lei e, allo stesso modo, diventa attore quando è il mondo che la osserva, come se ora vivesse come dei pesci rossi in una boccia. È stato il dispositivo teatrale la parte più interessante, proprio perché dava la possibilità di costruire il personaggio rendendolo al contempo ordinario ma anche assai particolare, strano.
U.M. Sono completamente d’accordo con quello che ha detto Isabelle. È un aspetto normale delle persone, quello su cui ci siamo concentrati con un recitazione difficile da attuare, che doveva riuscire a far sentire allo spettatore la situazione che si voleva restituire: ad esempio la felicità, come l’allegria e la gioia di quando fanno il bagno tutti insieme. Per questo genere di brani penso a un grande come Cassavetes.
Per la regista: nella prima parte del film si vedono molte delle influenze di Jacques Tati e di Week-end di Godard quando, in effetti, per me il film prende il volo; nella seconda parte, procedendo verso la claustrofobia, diventa più scontato. Volevo sapere se è vero il discorso su Tati, sulla danza, e quello legato a Godard sulla macchina.
Poi una domanda per la signora Huppert. Cito tre suoi film: La pianista di Haneke, Gabrielle di Chéreau e Madame Bovary di Chabrol. C’è una consequenzialità in queste scelte? E poi una domanda impertinente: come diceva Flaubert, «Madame Bovary c’est moi!». Anche lei si sente così?
U.M. È buffa questa storia delle citazioni, dei riferimenti. Con il direttore della fotografia, Agnès Godard, avevamo volutamente cercato di evitare questa trappola, il riferimento, che è stato assolutamente involontario: mi piace Tati, mi piace Godard, ma tutto è venuto fuori in maniera naturale, non voluta; forse semmai qualche immagine, qualche sequenza si può avvicinare a uno di questi registi, perché noi volevamo fare un film che assomigliasse soltanto a se stesso, che fosse assolutamente singolare, con un mix di tante cose diverse, come la musica metal. Io poi sono onnivora: mi piace il cinema asiatico, australiano, anglosassone, europeo, francese, ma non mi sento un’erede della cinematografia francese, forse perché sono di origine franco-svizzera, quindi un po’ doppia, aperta a tante cose diverse. Si è parlato anche di western alla John Ford: ulteriore conferma delle diverse citazioni.
Per quanto riguarda il finale, la situazione si evolve in modo che la quiete diventa più opprimente del rumore: i personaggi non riescono più a sopportare il silenzio. Come ha detto Isabelle, non c’è niente di volutamente psicologico nella storia: il finale è una liberazione fisica cercata dai personaggi, più che psicologica. Escono perché hanno bisogno di respirare, hanno una necessità fisica di uscire da quella situazione: non si tratta di una liberazione mentale.
I.H. Potrei parlare di quello che viene chiamato il ’Paradosso dell’attore’: sono io, senza esserlo, pur essendolo. Mi piace questa idea di poter portare a me il personaggio. Per me il film è una sorta di rapina: l’attore ha tutti i diritti e non ha alcun vincolo da rispettare, può tranquillamente impadronirsi di un personaggio, così come si occupa una casa. Perché dovrei accontentarmi? È un’occupazione totale dei luoghi: non per tornare alla metafora di questo film, ma insomma Home è l’ideale in queste circostanze.
Vorrei chiedere alla regista perché, per rappresentare la metafora dell’oppressione della civilizzazione ai danni delle persone, ha scelto un’opzione moderna e non contemporanea, ovvero le automobili e l’autostrada e non la tecnologia, come i cellulari o altri apparecchi.
Invece, per la signora Huppert: che tipo di giurata dovremo aspettarci a Cannes? Vorrei sapere se i suoi gusti di attrice divergono in qualche modo da quelli di spettatrice, ossia che tipo di cinema ama al di là dei ruoli che ha interpretato.
U.M. In effetti per me questo film è una sorta di favola, ma una favola molto realista. E diciamo che quello che il film non mostra è altrettanto importante di quello che fa vedere: siamo portati a pensare che il pericolo venga dalla strada, ma poi ci rendiamo conto che il esso proviene dall’interno, dalle loro nevrosi personali. Per cui sì, l’autostrada può essere una metafora del mondo, però abbiamo voluto – come dire – salire un gradino, poiché la famiglia è vista come una parte fondamentale per gli individui. Però le chiavi di lettura sono molte, perché c’è anche la possibilità di renderlo come una storia ambientalista, ma allo stesso tempo un film sociale – non alla maniera dei Dardenne, però – nella misura in cui le persone, come in tante città di oggi, sono invisibili: invisibili agli occhi degli operai e a quelli degli automobilisti, un po’ come i nostri barboni nelle città. C’è, quindi, questa possibilità di lettura politica. Alcuni vi hanno visto anche una metafora della Svizzera: un Paese isolato, chiuso... È vero: c’è anche questo, perché, per l’appunto, è presente l’idea della paura che le persone possono avere del mondo. Riguardo la famiglia, recentemente è stato fatto un sondaggio che chiedeva quale fosse la cosa più importante per la vita della gente e tutti hanno risposto ’la famiglia’, mentre una volta si parlava di altri valori, tipo il lavoro. Aumentano i divorzi ma, apparentemente, cresce invece l’importanza che essa può rivestire per l’essere umano in quanto ultimo bastione sociale: ed è un fatto, questo, che mi mette anche un po’ di paura.
In Home verso la fine la famiglia comincia a individualizzarsi: viene fuori, piano piano, l’identità di ciascuno. Comunque mi piacciono i film nei quali ognuno può vedere quello che vuole.
I.H. Sarò una Presidente di giuria così come sono un’attrice: quindi curiosa, aperta. Certo adesso non posso fare alcuna previsione, naturalmente è impossibile dire che tipo di film potrei scegliere, tanto più che Cannes per definizione è il luogo ideale, quello più aperto a ogni idea, a tutte le cinematografie: sarà una sorpresa per voi come per me.
Devo poi dire che mi sembra di aver frequentato un po’ tutti i generi e trovo che sia sempre molto delicato parlare di categorie nel cinema, anche la stessa idea di cinema d’autore è da maneggiare con prudenza e cautela, perché esso non significa necessariamente che debba trattarsi di un film ’difficile’ e non commerciale: pensiamo a un grande regista come Fellini, che ha avuto anche successo commerciale, è stato visto un po’ da tutti, ha vinto quattro Oscar, pur facendo cinema d’autore. Un buon film è un buon film e può trovarsi dove uno meno se lo aspetta.
A me è sembrato che l’atto di resistere in una casa al bordo di un’autostrada rivesta un significato di non omologazione con il resto della società; il finale, poi, mi è parso sottintenda che non ci sia spazio per quelli che non si adattano a vivere in una casa con due camere, bagno e cucina.
Invece la domanda per la signora Huppert riguarda il premio che riceverà stasera, intitolato a Valeria Moriconi, che per noi Italiani è stata un’attrice molto amata: non so per voi in Francia, se la conoscevate.
U.M. Effettivamente i personaggi, dopo essere stati isolati, sono obbligati a rientrare nel mondo che avevano cercato di lasciare fuori dalla porta di casa. Loro avevano cercato di costruire tutto intorno alla figura della madre, così fragile ma centrale nel film, una donna che in qualche modo, con il suo amore cerca di essere più forte del valore di attrazione che il mondo può esercitare sugli altri, di provare che è possibile continuare a vivere in quel modo, tenere unita la famiglia attraverso l’amore, dicendo ’Con me ci si può aggrappare a qualsiasi cosa’ che è anche una cosa terribile perché, in quel caso, si arriva fino alla follia, perché quando cominciano a passare le macchine lei dice ’vedremo quello che succede’, cercando di adattarsi in qualche modo alla situazione che verrà. Però a un certo punto devono dire ’basta’, andarsene via come afferma il padre: è la cosa più logica, dopodiché assistiamo a un esaurimento anche fisico, lo sfinimento di persone che non riescono più poi a trovare la porta. E come dice Tsai Ming-Liang, nelle situazioni estreme, quando si è toccato il fondo, si trova comunque la luce, la porta per uscire. Ed è un po’ quello che ci chiede di fare la società di oggi: abituarci anche a delle cose folli, tipo quelle che si possono vedere percorrendo l’equivalente del Grande Raccordo Anulare a Parigi che passa appiccicato alle case, tanto che dalla macchina si possono vedere scene di vita famigliare.
I.H. Devo confessare che non conoscevo Valeria Moriconi, ma sono molto contenta di partecipare a un premio legato al teatro: infatti sono anche un’attrice teatrale. Ritengo che il teatro rimanga un’utopia molto più di quanto non sia il cinema: ci sono delle utopie anche nel cinema, come può essere Home, però ciò è sempre più difficile. Trovo che il teatro rimanga un’arte puramente viva e consenta degli incontri particolari con il pubblico, penso che gli spettatori teatrali siano estremamente aperti: e ciò mi dà molto conforto.
Che cosa è che le toglie l’aria nella vita di tutti i giorni? E poi è stata lei scegliere quelle meravigliose scarpette: che ci fa una donna così sciatta e disperata, lungo l’autostrada, con degli stivaletti così fetish?
I.H. A volte è la stessa vita ad essere soffocante. In fondo quando si lavora a un film si è circondati da tutta un’organizzazione, da più persone, e ciò è rassicurante. Quando invece non si lavora si è improvvisamente investiti dalla vita con tanta violenza e anche con tanta stanchezza e per me è difficile scegliere di fare una cosa piuttosto che un’altra. Questa situazione mi lascia un po’ sgomenta, perché sono tante le cose che mi piacciono: ma diciamo che non è, comunque, un soffocamento molto grave.
Effettivamente sono degli stivaletti molto carini: sono di Balenciaga, tanto per dare a Cesare quel che è di Cesare! Devo dire che però hanno molto a che vedere con il personaggio: trovo che le scarpe sono sempre molto importanti. Cambia molto se si cammina sui tacchi oppure rasoterra. Spesso io stessa provo con le scarpe o senza e da esse dipende la vita che un personaggio può avere: a seconda se ci sta più o meno comodo dentro, potrà avere un’andatura più o meno oscillante, per esempio. Quegli stivaletti hanno anche un lato chiuso con dei lacci stretti. Fanno anche un po’ parte della teatralità di Home: Marthe può autorizzare se stessa a vestirsi in modi improbabili, capita a volte di vedere immagini di film degli anni Cinquanta e anche il marito sembra a un certo punto uscire da un western. La Meier gioca molto con questi codici dell’abbigliamento, come con quelli cinematografici, e trovo che in questo modo si contribuisce allo straniamento del personaggio e gli si dà anche una grande libertà, perché in fondo permette di raccontare anche un lato operativo di questa madre che, in realtà, non dovrebbe avere nulla di creativo perché, così come è rappresentata, è una donna normale, ben inserita nella sua funzione materna, con tutto ciò che essa comporta: grandezza, abnegazione, ma anche frustrazione.
