Hope - Berlino 2020
Anche se recitasse in un cine panettone Stellan Skarsgård conferirebbe, ai nostri occhi, un plusvalore indiscutibile a un film che lo vede protagonista. Qui a Berlino, che lo ha consacrato poco più che trentenne con un Orso d’Argento (era il 1982 e il film, mai uscito in Italia, s’intitolava The simple-minded murderer) Skarsgård torna quasi ogni anno, per lo più in concorso, protagonista assoluto dei film dell’amico Hans Petter Moland, altro habitué del festival, ancora l’anno scorso con il non memorabile Out stealing horses. Quest’anno il sessantanovenne attore svedese, fresco del Golden Globe per Chernobyl, è invece il protagonista maschile della coproduzione svedese-norvegese Hope, inclusa nella sezione Panorama, dopo esser passata a Toronto nel settembre del 2019, con un buon successo sia di pubblico che di critica. Il film, classico dramma borghese in quella tradizione in cui gli autori scandinavi al teatro come al cinema conoscono pochi rivali, ha moltissimo a che fare con Moland e famiglia, perché la regista Maria Sødahl è proprio la moglie di Moland e la vicenda che viene raccontata presenta numerosi tratti autobiografici, di cui forse non si dovrebbe dire granché per ragioni che si capiranno fra un attimo.
Scandita in una decina di inesorabili capitoli che vanno dal 23 dicembre al 2 gennaio, la storia racconta la scoperta di una malattia mortale, un tumore al cervello probabilmente di natura secondaria, da parte di Anja, coreografa di successo, tra i quaranta e i cinquanta, interpretata dall’ottima attrice norvegese Andrea Bræin Hovig. Anja convive con un compagno più grande di lei, Tomas, appunto interpretato da Skarsgård, regista teatrale totalmente "workaholic". All’inizio del film, prima della scoperta della ferale notizia, non si può dire che lo stato della coppia sia dei migliori. Complici anche le vacanze di Natale la casa tuttavia si riempie di figli, a fingere un’armonia vera fino a un certo punto: oltre ai tre che Anja e Tomas hanno fatto insieme e che con loro convivono ce ne sono altrettanti, molto più grandi, che Tomas si porta dietro da un precedente matrimonio. Ma poi, per Natale, è arrivato anche il padre di lei, e poi ci sono cari amici e colleghi. Il film racconta la cronaca della presa di coscienza di questa straziante verità, come dirlo ai figli, rassegnarsi alla prima diagnosi oppure no, continuare a sperare oppure no, sperare in una minuscola possibilità che il peggio non accada o accada molto dopo, in un tempo meno inesorabile.
Ma la cosa più importante di cui tratta il film è il rapporto fra amore e morte, non tanto nella tradizione romantica di matrice wagneriana, quanto piuttosto: la morte come elemento capace di ridefinire, rinegoziare le relazioni umane e fra queste la più importante di tutte, ossia l’amore o ciò che dell’amore resta. Fin qui stancamente rassegnati a una convivenza non proprio entusiasmante, i coniugi (anzi i conviventi, coniugi lo diventeranno poche ore prima dell’operazione chirurgica da cui tutto dipenderà e con cui il film si concluderà, a seguito di uno slancio emotivo fuori tempo massimo di Tomas), al cospetto della morte imminente, provano a riscoprirsi, provano a ritrovare l’affetto che pareva ormai del tutto finito. Ma Anja e Tomas sono sufficientemente raffinati da problematizzare quel che sta loro succedendo: possibile che ci voglia la morte per tornare ad apprezzare ciò che avevamo e che da tempo si era cessato di valorizzare? Insomma scene da un matrimonio con la clessidra, con la scadenza, con la condanna. È lo scandaglio analitico, è la lucidità di due persone comunque dotate di una sensibilità superiore alla media che permette al film di non scadere mai nel patetico, rischio costantemente presente nei numerosi cancer movies da Love story in avanti. Film di sceneggiatura e, lo ribadiamo, film di grandi attori (più inappariscente la regia e la fotografia) Hope ha, secondo noi, tutte le caratteristiche per essere incluso in quella minuscola quantità di film europei capace di trovare spazio anche nella distribuzione italiana.
(Håp); Regia: Maria Sødahl; sceneggiatura: Maria Sødahl; fotografia: Manuel Alberto Claro; montaggio: Christian Siebenherz; interpreti: Andrea Bræin Hovig (Anja), Stellan Skarsgård (Tomas), (Urs),Thomas Mraz (Manfred); produzione:Motiys Film, Oslo, TrustNordisk, Hvidovre origine: Norvegia-Danimarca 2019; durata: 125’