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I love you

Pubblicato il 1 aprile 2015 da Alessandro Izzi
VOTO:


I love you

Inquadratura dall’alto, da un soffitto troppo vicino al pavimento.
Un ragazzo, steso sul letto, a torso nudo, piange affondando la testa nel cuscino. Si alza di scatto, dà un calcio al giaciglio facendosi male al piede e si siede, accucciato nella rabbia e nel rancore.
Sfuggono, a un primo sguardo su questo incipit inaspettato, dettagli significanti: quel soffitto davvero troppo basso, la fredda pulizia anestetica di una stanza prigione tutta fatta a specchi, il rimodularsi di quadrati tra le piastrelle del pavimento e i mobili dell’arredamento.
I colori tenui delle pareti, la stoffa leggera dei vestiti del ragazzo che sono un po’ tuta da ginnastica per rapide corse in cyclette e un po’ pigiama fresco, contribuiscono a creare un clima ospedaliero anche se non ci sono in giro dottori in visita o infermiere a portare i pasti alle ore comandate.
Non c’è neanche impressione di polvere né sporcizia. Tutto è pulito, tutto è superficie, tutto tende all’astrazione di una geometria elegante ed essenziale.
Il montaggio alterna primi piani e figure intere a totali asettici che isolano sempre il personaggio tra tre pareti e quel soffitto che lo schiaccia come una condanna senza appello. In questo modo lo sguardo dello spettatore è una quarta parete di cristallo che non crea impressione di teatro perché è sguardo aperto sempre su angoli diversi dello stesso monolocale: la zona letto, la scrivania del PC, l’angolo per l’educazione fisica. Angoli asettici, mai realmente messi in comunicazione tra di loro, quasi fossero caselle in un’unica prigione senza uscite.
Del resto qui non ci sono finestre e l’unica porta di ingresso se ne sta chiusa tra gli specchi. Persino i quadri appesi alle pareti non sono paesaggi, ma solo campate di colore uniforme, astrazioni che non hanno nemmeno la consolazione di un taglio che rimandi con dolori alla sola possibilità di un altrove.
Tutto è chiuso in questo bianco medico fino a che un trillo dal PC non annuncia la chiamata in corso di qualche sconosciuto. Adam, questo il nome del ragazzo, risponde e si trova in videochiamata con Léa, una ragazza parigina che forse ha sbagliato contatto, che forse ha chiamato a caso, ma che non perde l’occasione per attaccar bottone anche perché Adam, a quel che dice, è decisamente più carino del ragazzo che avrebbe dovuto chiamare per davvero.
Da lì in poi i due giovani si sentono spesso e per Adam l’appuntamento al PC diventa l’unico motivo di sorriso. Del resto essi sono anche il motivo dell’unico movimento reale all’interno della stanza contro le corse in cyclette che non portano da nessuna parte.
Léa porta nella stanza sempre freddamente illuminata di Adam l’impressione romantica della notte, con la sua stanza sempre buia e vagamente misteriosa.
Il contrasto tra luce e buio non potrebbe essere più marcato in queste due notti così diverse che si parlano tra loro da distanze così siderali.
Virtuale e Reale si sfiorano, si seducono, si guardano e si parlano. Léa è il fuori di qui, esotico e magico. Adam, da parte sua, è l’hic et nunc che invoca continuamente un’immedesimazione: nella sua malattia (è lì in quarantena, ci dice a un certo punto), nei suoi soprassalti rabbiosi, nella sua noia, ma anche e soprattutto nella sorpresa con cui si lascia andare alla scoperta dell’altra, nei suoi tentennamenti, nei tremiti timidi della sua voce.
Così quando meno te l’aspetti il corto comincia a raccontare la possibilità di un amore al PC, su una chat, in videochiamata. Comincia a parlare di comunicazione e sentimenti, di parole e desideri scivolando sempre più nel filosofico man mano che il racconto prende corpo e si fa immagine.
E così tra le spire di un romance fatto di piccoli gesti e tanti sorrisi, prende corpo il ritratto di una solitudine generazionale in cui l’impressione di finestra di un PC (possibile sguardo sul mondo) si ribalta nella freddezza riflettente di uno specchio che ci rimanda addosso sempre la nostra stessa immagine.
Poi il corto imbocca il suo impossibile finale (che qui non sveliamo) e il cerchio si quadra in un apologo che è stato capace di anticipare addirittura Spike Jonze.
I love you è un corto molto bello e denso. Un lavoro in cui ogni elemento contribuisce alla riuscita complessiva. Superbo soprattutto dal punto di vista attoriale con l’Adam di Pierre Moure, davvero esemplare nel restituire la fragilità sofferta del personaggio, e la Léa di Claire Assali, umbratile come un Amelie 2.0.

Tweeting: Un piccolo dramma sentimentale che racconta la precarietà della nostra percezione del mondo all’epoca di Internet

Where to: Su Vimeo, clickando QUI


(I Love You); Regia e sceneggiatura: Benjamin Busnel; fotografia: Lucas Bernard; montaggio: Alexandre Dhee; musica: Eric Brunswick; interpreti: Pierre Moure (Adam), Claire Assali (Léa), Joël Dorkendo (L’homme en jaune); produzione: Satourne Productions; origine: Francia, 2006; durata: 13’


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