I Vicerè

I Vicerè non impressiona per trovate né per strategia. Segue la forza del romanzo e la plasma in una magrezza televisiva pulita e valida per tutti. Il paragone col maestoso Il Gattopardo è, comunque la si veda, obbligato. Il principe Salina, con tutta la forza estetica di quel Burt Lancaster lì, è un filosofo spicciolo del cambiamento epocale, formale ed irreversibile al tempo stesso. Un cambiamento che Burt vive con nobile distacco, con un intelletto classico, con una saggezza secolare. “L’amore”, sostiene ad esempio, “è un anno di fiamme e cento di cenere”. Il principe assiste dalla finestra al passaggio rivoluzionario ma mai l’ansia lo pervade. In lui c’è un decadentismo quasi ironico, delicato, più forte degli eventi. E se quell’aristocrazia è piena di scheletri nell’armadio, la facoltosa borghesia che arriverà a prendersi il potere sarà meno sostenuta da cultura e tradizione e ciecamente più affamata di un potere che desidera e che non conosce. Nel personaggio incarnato dal discreto Buzzanca, al contrario, c’è una nobiltà soltanto di titolo. E’ tutta borghese, se non piccolo borghese, la sua sete di potere. Può somigliare più al Calogero Sedara, recitato dal frizzante Paolo Stoppa, che all’eleganza sorridentemente triste di Lancaster. Il Gattopardo, al di là dell’enorme distanza artistica che passa tra questi due film, sembra un film più storico. Lirico, sfarzoso, esagerato se si vuole, che segna la fine di un tempo e l’inizio di un altro sostanzialmente identico al precedente, seppure diverso. Il Gattopardo è un film politicamente legato a quel momento storico: inarrivabile fotografia di un crocevia. Quello di Faenza, invece, forte del suo solido e insuperato rapporto con l’omonimo, risorgimentale e risorgente libro di Federico De Roberto, è un film politicamente più vicino all’attualità ed al nostro tempo quotidiano. Il momento storico rimane legato ai costumi e ai gesti. Il volare narrativo degli anni, (ogni cinque minuti una didascalia descrive un salto in avanti nel tempo) sembra voler denunciare l’affannata corsa verso i nostri giorni. Le forze che muovono il film poi, e che lo salvano dalla definitiva foza di gravità televisiva, sono i concetti dialogati che vengono espressi prosaicamente dai volenterosi, concentrati e mai straordinari attori. Si parla quasi atemporalmente di potere, di diabolici ed onnivori valori negativi che succhiano l’anima dei protagonisti principali fino a schiacciarli contro il muro troppo banale della super negatività. E tutto questo, oggi come oggi, non può che cavalcare l’onda emotiva che caratterizza il rapporto tra massa e classe dirigente. I dolenti persoanggi de I Vicerè sono facili vittime di interessi materiali che soppiantano lo spirito, l’emotività, il desiderio intimo e giusto. Il protagonista cattivo, Lando, l’icona di una Sicilia che non c’è più, è l’emblema piatto di una polarità. Chi gli gira attorno diventa sua totale preda e solo il figlio maggiore, tenacemente all’ascolto della sua personalità, sembra potergli tenere testa. Soltanto che appena assaggia il sapore del potere capisce di non essere poi così dissimile dal padre: trasformismo esistenziale che colpisce più la pancia dello spettatore che la sua voglia di causa, effetto e grande Storia. Il romanzone che sbalza lo spettatore, e che gli fa venire quel piacevole mal di cinema, è un segnale positivo e un segnale negativo. Sentire l’emozione e non poterla associare alla descrizione di un gran film, e nemmeno ad una valida lezione di Storia, di politica o di antropologia culturale, è qualcosa che non somiglia né ad un fallimento né a un bel film. Ed un film che non è un fallimento e non è un bel film non segna la storia del cinema. Va bene per le scuole, ma anche per quelle ci sarebbero un sacco di film più precisi, seppure didascalici nella stessa maniera. Il privato fatiscente, un pizzico psicanalitico, sanguinoso e logorante dei protagonisti, tiene i grandi fatti storici alla periferia del film. Alla cornice di un quadro colorito in cui buoni e cattivi finiscono per somilgiarsi. Nessuna vistosa sbavatura nella trasformazione della parola in immagine. Persino sobria eleganza nell’esposizione estetica del dramma. Eppure poca profondità storica. Certamente meglio la scaturente analisi dell’essere umano di fronte al dilemma dei sentimenti soggiogati dall’antica, dannata e comune malattia del potere. Le migliori sequenze del film servono più a sintetizzare i nostri giorni che la nostra storia.
(I Vicerè); Regia: Roberto Faenza, sceneggiatura: Roberto Faenza, Andrea Porporati, Francesco Bruni, Federico Gentili; fotografia: Maurizio Calvesi; costumi: Milena Canonero, montaggio: Massimo Fiocchi; musica: Paolo Buonvino; interpreti: Assumpta Serna, Cristiana Capotondi, Franco Branciaroli, Lando Buzzanca, Lucia Bosè, Alessandro Preziosi, Guido Caprino; produzione: Rai cinema, Rai Fiction, distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia, 2007; durata: 120’; webinfo: Sito ufficiale
