IL CARTAIO

Stavolta niente inseguimenti, né estenuanti soggettive di un assassino senza volto che bracca donne terrorizzate fino a infierire goduriosamente nelle loro carni. Stavolta Argento non ci costringe a partecipare intimamente al furioso rituale con cui la Violenza cieca si dispiega. Stavolta “lo spettacolo” è rinchiuso in una finestrella di un monitor che un’intera caserma di polizia guarda impotente. L’orrore è mediato dagli spettatori del film. Quelli in sala, privati dell’esclusiva, restano più distanti. Inoltre la suspence, quell’improvviso dilatarsi senza limite dell’attimo fatale tanto tipico dei film di Argento, dura poco. Giusto il tempo di una partita a videopoker. Una volta vinta la partita, l’assassino sbriga la pratica con pochi colpi di lama. L’unico spettacolo che resta è quello dei corpi straziati restituiti dal Tevere, mostrati a lungo ma senz’altro effetto speciale se non quello di una ricostruzione artigianale iperrealistica. Sono opera del fido Stivaletti e sono ripresi con le luci naturali che Argento ha preteso da Benoit Derbie (direttore della fotografia di Irréversible). Sono impressionanti certo, ma ormai senza vita. Troppo tardi per il batticuore. Anche i volti deformati e sgranati delle vittime, nella finestrella del monitor, più che inquietanti sono squallidi. Né suspence né effetti speciali, dunque. Una rinuncia discutibile (il film somiglia a tratti ad una puntata di Distretto di polizia) ma anche coraggiosa, se si considera che è una delle probabili ragioni per cui il regista va perdendo un pubblico di massa. Tutto questo mentre film non di genere come Buongiorno, notte, raccolgono imprevedibilmente l’eredità dell’Argento classico, quello delle atmosfere horror e delle mirabili tecniche di suspence (la scena della stella rossa nell’ascensore, l’inizio nell’appartamento vuoto con le voci rimbombanti, etc.). Ma è evidente che stavolta Argento punta ad altro. La sfida, la vera partita del Cartaio ci sembra quella di creare un corpo cinematografico in cui convivono senza soluzione di continuità il massimo della bruttezza e il massimo della bellezza. Anzi di infilare “un film sul Male assoluto” (sono parole sue) nell’involucro architettonico più bello, e forse più inquietante, del mondo. Nel film si alternano con disinvoltura schermate dozzinali di un videogioco e sequenze notturne nella Roma barocca del ghetto, del Pantheon. Gli esterni “incantati” cozzano terribilmente con gli interni asettici, freddi, degli uffici della polizia così come nella realtà capitolina la figura del serial killer, fortunatamente, non vanta ancora una gran tradizione nelle cronache nere. Eppure nel parco lussureggiante del Gianicolo, dove un arco romano dimenticato affiora fra la vegetazione incolta, si trova anche il locale putrido dove l’assassino rinchiude e massacra le sue vittime. Anche la colonna sonora di Simonetti, una martellante tempesta elettronica lontana anni luce dai suoni espressionistici di Profondo rosso, riproduce la ripetitività dei videogiochi e contribuisce a straniare lo spettatore (non a caso la brava Stefania Rocca non esiterà, con il gesto più liberatorio del film, a ristabilire il silenzio sparando sullo stereo). L’urto fra Arte e Tecnologia asservita al male, fra umano e dis-umano, non potrebbe essere più stridente ed è in questo che riposa, a nostro parere, il cuore pulsante, la ragion d’essere più profonda del film.
[gennaio 2004]
Regia: Dario Argento. Sceneggiatura: Dario Argento, Franco Ferrini. Fotografia: Benoit Derbie. Musica: Claudio Simonetti. Montaggio: Walter Fasano. Interpreti: Liam Cunningham, Stefania Rocca, Silvio Muccino, Claudio Santamaria. Produzione: Claudio e Dario Argento per Medusa film. Origine: Italia 2003. Distribuzione: Medusa film. Durata: 106’.
