Il Divo

È una storia italiana. Di quelle che fanno male. Di quelle che al termine della proiezione ti guardi in giro un po’ intontito. Ridono i francesi, gli inglesi, chiunque non faccia parte del bel paese. Noi no. Non possiamo ridere. Dobbiamo riabituarci a non ridere. Dobbiamo fuggire anche l’istinto del sorriso. Dobbiamo riacquistare l’abitudine all’amarezza, all’indignazione ferma e decisa, quella che l’indomani non scompare restando vigile e costruendo barlumi di coscienza. “È una mascalzonata” ha detto il Senatore a vita Giulio Andreotti dopo avere assistito ad una proiezione privata. Ma Il Divo è prima di tutto un grande film, uno di quelli che ti fanno tornare alla mente più Petri che Rosi. Un film che ti entra dentro da subito senza chiedere permesso, un film che ha il gusto corposo del cinema, quello bello, quello che noi Italiani sapevamo fare prima di perderci nelle acque scure delle troppe commedie adolescenziali. Qui il problema non è un esame di maturità da affrontare o l’ennesima ragazzina carina che prima di concedersi pretende chissà quali prove d’amore, qui è la storia che irrompe, la storia di 7 governi della Democrazia Cristiana e del suo leader indiscusso, Giulio Andreotti.
C’era il timore che Il Divo riuscisse didascalico, troppo morbido, finanche laccato. La paura svanisce immediatamente. Il film è il trionfo dello stile, tanto personale quanto riconoscibile, di Sorrentino. Guardando ed apprezzando le opere precedenti si diceva spesso (noi compresi) che se l’autore napoletano, comunque amato e stimato, fosse riuscito a limare certi narcisismi registici, alcune trovate a metà tra il kitsch ed il naif, avrebbe compiuto un ulteriore passo avanti. Ebbene Il Divo è la dimostrazione di come la critica venga sempre dopo la prova d’autore. La pellicola è esasperatamente “piena”, i movimenti di macchina si rincorrono vincendo qualsiasi stacco. È pura loquacità visiva, strabordante fiume di immagini e parole. È storia, si diceva, e la storia inizia il giorno dell’insediamento del 7° governo andreottiano con la presentazione del gruppo “fidato” di colleghi, amici e finanzieri. Ecco Cirino Pomicino, quasi un guascone nell’interpretazione di Carlo Buccirosso, Salvo Lima, Vittorio Sbardella, Franco Evangelisti, Giuseppe Ciarrapico, il Cardinal Fiorenzo Angelini. Insieme sono “la corrente andreottiana”, una brutta corrente preannuncia Madame Enea (Piera Degli Esposti), segretaria storica del Senatore. Sarà un governo di breve durata che porterà alla Presidenza della Repubblica di Scalfaro (proprio Andreotti fu il grande sconfitto), allo scoppio di Tangentopoli ed all’avviso di garanzia per associazione a delinquere di stampo mafioso per il Senatore.
Questo è l’arco temporale preso in esame. Questo è il tempo che Sorrentino sfrutta per disegnare il suo Giulio Andreotti, affidandone le sembianze al bravo, bravissimo, Tony Servillo. Il regista nasconde o decide di non portare sullo schermo poco o nulla della vita e della carriera politica del suo protagonista. Contemporaneamente si concentra sul personaggio, delineandolo secondo modi e stilemi assolutamente personali. Un Andreotti vittima di continue emicranie, insonne, assiduo frequentatore della chiesa. Un Andreotti che pare non accusare colpi ma con un’unica grande condanna sul capo, il delitto di Aldo Moro, le accuse di non avere fatto tutto il possibile per salvare il Presidente della DC dalla prigionia delle Brigate Rosse, i pesanti giudizi contenuti nel presunto memoriale che portò alla morte di Mino Pecorelli, giornalista. Moro è più di un rimpianto. È uno spettro sempre presente. Quello che vediamo è l’Andreotti che tutti pensiamo di conoscere, uomo di cultura e dalla battuta pronta, amante delle feste in cui seduto aspetta il quotidiano omaggio alla sua persona.
C’è anche un Andreotti intimo nel rapporto con la moglie e che nel film deflagra in una auto-confessione compiuta in apnea, snocciolando di seguito, come letame esploso, colpe commesse sotto la costrizione dell’obbligo di governo. In quei tre minuti Sorrentino sale sul ring, mette il Senatore nelle fauci del suo obiettivo e lo spoglia, lo denuda di un abito istituzionale vestito ormai da più di cinquant’anni, dall’investitura di De Gasperi. È l’attimo in cui Servillo porta all’estremo il personaggio e, concedendosi la giusta ribalta, lo travalica nel delirio di una coscienza che violenta viene fuori. Ma questa è finzione. Non ci è dato sapere, e non lo sapremo mai, se tra le mura amiche, davanti lo specchio o in qualsiasi altra situazione, il Divino Giulio abbia mai fatto i conti con quella coscienza impossibile da decifrare, la stessa assolta nel 2003 dal tribunale di Palermo per i suoi rapporti con la mafia anteriori al 1980 per reati caduti in prescrizione.
Forse solo lo straordinario gusto cinematografico di Sorrentino poteva essere in grado, sin dal titolo del film, di rendere sullo schermo una corposa parte della storia politica e sociale italiana e quel costume, oggi divenuto principale informazione giornalistica, con tale incisività e violenza. Non sta in alcuna costrizione di genere Il Divo, semmai si porta dentro i germi di tutti generi. Il prologo da gangster-movie, le svolte drammatiche, le cadute (solo di tono si intende) verso la commedia all’italiana, il biopic rivisitato attraverso gli occhi dell’autore. In tutto questo la voglia di “giocare” a prendere sul serio il mezzo cinematografico senza accontentarsi di una tecnica nota o consona alla materia trattata, ma cercando sempre di spingersi oltre, verso una contaminazione di linguaggi solitamente tra loro tenuti lontani.
Ciò che, nelle prime opere di Sorrentino (L’amico di famiglia su tutte), sembravano eccessi privi di giustificazione ne Il Divo diventano cristallina dichiarazione di stile e poetica. Potrà anche non piacere, talmente estreme alcune soluzioni, ma è un modo diverso di intendere il cinema. È una rielaborazione coraggiosa che legata a ciò che racconta diviene ancora più potente.
Gli altri articoli dello Speciale Sorrentino:
(Il divo); Regia e sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Cristiano Travaglioli; musica: Teho Teardo; interpreti: Toni Servillo (Giulio Andreotti), Anna Bonaiuto (Livia Andreotti), Giulio Bosetti (Eugenio Scalfari), Flavio Bucci (Franco Evangelisti), Carlo Buccirosso (Paolo Cirino Pomicino), Giorgio Colangeli (Salvo Lima), Piera Degli Esposti (Madame Enea); produzione: Indigo film, Lucky Red, Parco Film; distribuzione: Lucky Red; origine: Italia; durata: 110’.
