Il dolce e l’amaro

L’atteggiamento di Andrea Porporati di fronte all’opera seconda, col rischio sindrome a due passi, è opposto a quello del più ambizioso, eccessivo, ma anche coraggioso Paolo Franchi. Se il primo rischia tutto ed accelera bruscamente in direzione autoriale, sbandando dolorosamente, il secondo si nasconde, come un bambino intelligente e timido, dietro gli argini noiosi (e i cattivi consigli) del cinema italiano. Quello romanzato e cartolinesco, da riposo, facile e lineare. E realizza il film che il pubblico italiano si merita, che in fondo vuole e di cui si accontenterà senza scaldarsi. Se Franchi cade dal trapezio, Porporati si concede una passeggiata nel parco. Se il primo scivola sul silenzio della sala, e poi si sgretola e si inguaia in faccia alla stampa, il secondo porta a casa il breve applauso che cercava. Se di fronte al pericolo Franchi va a sinistra, Porporati sceglie la destra. Di sicuro meno furbo il primo del secondo. Meno calcolatore e più impaziente. Forse più egoista e testardo. Porporati, al contrario, già autore del pregevole Il sole negli occhi, deve fare attenzione solo alle macchine che passano durante il suo attraversamento pedonale. E il coast to coast dalla realizzazione all’alto gli riesce bene. Perché il gioco è poco avventuroso e perché la sua scrittura possiede un solido mestiere. Il regista (e sceneggiatore) segue le tracce fresche e meno fresche di un cinema che piacque e le trasforma in un film che riesce a tenere in considerazione tante cose diverse, compresa la cara e fetente tv. Frulla titoli italiani recenti con dadini di grande cinema italo americano. Cult! Tiene a mente Angela e C’era una volta in America, Donnie Brasco e I Cento Passi, Quei bravi ragazzi e Romanzo criminale, Tarantino e Distretto di Polizia,, Il commissario Montalbano, La piovra e La meglio gioventù. Racconta una tiepida storia d’amore e cosparge la favola di Sud Italia visivo e sonoro. Poi addolcisce il dramma con sortite nel grottesco e nella commedia. Con un paio di trovate da applauso e risata di cui rendergli atto. E che fanno piacere e rabbia insieme. Perchè scompaiono come delfini nel Tirreno. Si affida a volti sicuri che lo ricambiano con interpretazioni di normale efficacia. Gifuni si appoggia a Borsellino e ne fa un’imitazione che vibra per qualche istante. Lo Cascio si redime dal fallimento di Mare Nero e nei panni del cattivo dimostra di poterci stare, seppure faticando. E perciò Porporati non gli estrae mai del tutto dalla parte qualche momento di deamicisiana umanità. La Finocchiaro continua ad essere leggermente imbalsamata e stavolta il suo personaggio non l’aiuta. La sua sicilianità (anche bellocchiana) da sola non basta più. Tra i tre è suo il personaggio più piatto e vincolato a schemi culturali e filmici da cui si potrebbe e si dovrebbe tranquillamente fuggire. Con Porporati siamo al secondo piccolo dispiacere per il cinema italiano in concorso a Venezia. Il dotato Andrea non riesce a scegliere un film personale e non segue con decisione neppure uno solo dei tanti solchi che si mette a disposizione. Ora rimane Marra, che di sicuro non farà una commedia. Non sappiamo con quale personalità e forza affronterà la sua terza prova nel lungo. La terza carta è ancora da calare, ma il monito di Lizzani, provocato dall’articolo di Galli Della Loggia sul “Corriere della Sera” (e seguito dagli interventi di Olmi, Bellocchio e Scalfari per una polemica necessaria e nobile) sembra trovare mille ragioni di essere alla luce di quanto visto finora di italiano al Lido. Lizzani parla dell’incapacità di trovare un linguaggio nuovo che sia capace di comunicare col paese e della mancanza di un sentire comune che accompagni gli autori nel loro percorso. Che dire, che fare? Attesa e speranza, ancora.
(Il dolce e l’amaro); Regia: Andrea Porporati; Sceneggiatura: Andrea Porporati; fotografia: Alessandro Pesci Kohout; montaggio: Simona Paggi Kohout; interpreti: Luigi Lo Cascio, Donatella Finocchiaro, Stefano Massirenti, Fabrizio Gifuni, Renato Carpentieri; musica: Andrea Guerra; origine: Italia 2007
