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IL GRANDE CAPO

Pubblicato il 4 gennaio 2007 da Matteo Botrugno


IL GRANDE CAPO

“Io sono il regista e questo è il mio riflesso” esordisce Lars Von Trier, riflesso dai vetri di una finestra, parlando direttamente allo spettatore. Introduce il suo ultimo lavoro definendolo una semplice commedia fine a se stessa, lontana da qualsiasi carattere didascalico-enciclopedico. Ovviamente si tratta di una spudorata menzogna. L’unica verità che sale a galla è che questo film può essere considerato come diretto lavoro del regista danese e, come tale, inscindibile dalla sua filmografia e dall’amato-odiato discorso estetico portato avanti ormai da quasi trent’anni.
L’idea della commedia sembra nascere proprio dal carattere provocatorio del regista. Lo stile americano viene ripreso esclusivamente nel tema trattato: un attore prende il posto del presidente di una società che si occupa di informatica, dato che il vero “grande capo” si finge semplice dipendente per paura di non essere abbastanza amato e, ovviamente, per non assumersi direttamente la responsabilità delle proprie decisioni. Anche le vicende legate ai componenti del consiglio d’amministrazione ricordano l’approccio della commedia statunitense nei confronti della vita d’ufficio. Ma Von Trier, nel bene o nel male, riesce ad andare oltre. I personaggi sono molto stereotipati e le situazioni in cui si trova l’attore (un ottimo Jens Albinus, già visto in Idioti) sono ovviamente surreali. Tutto ciò non si verifica però seguendo l’iter narrativo della commedia degli equivoci, ma piuttosto si manifesta nella descrizione di due mondi alienanti e contrastanti: da una parte quello del lavoro d’ufficio e dello stress e delle fobie che ne conseguono; dall’altra è possibile ravvisare una serie di riflessioni, tutt’altro che celate, sul processo di creazione artistica.
Il sistema piramidale, apparentemente infinito, di una società standard di stampo statunitense, in cui tutti i dipendenti sono convinti di essere parte di una grande famiglia, viene totalmente smontato non senza abilità da Lars Von Trier. Ma non è solo il livello di precarietà dei metodi moderni nella gestione aziendale a preoccupare l’autore danese. Il suo vuole essere un discorso più ampio sulla vita e, conseguentemente, sulle maschere che si possono indossare per celare solitudine e malessere. Naturalmente questi temi sono trattati con estrema leggerezza, seppur pervasa da quel cinismo che da sempre ha caratterizzato l’opera di Von Trier, dalla trilogia sull’Europa fino ad arrivare al lacrimevole Le onde del destino.
L’aspetto più interessante e, perché no, più irritante de Il grande capo è proprio l’atteggiamento autoreferenziale del regista. Ogni personaggio, in particolar modo quello dell’attore, espone il suo pensiero in modo tale che lo spettatore non possa sfuggire all’imposizione della ‘verità provocatoria’. Ovviamente quella di Lars Von Trier. Ibsen diventa un idiota, Strindberg un incompreso, e un fantomatico autore teatrale si trova ad essere di colpo il più grande genio del ‘900. L’improvvisazione, alla base dello stile del regista danese, viene duramente criticata dal protagonista, così come la ‘maldestra zoomata’ diventa simbolo del disinteresse verso il ‘bello’ inteso in senso convenzionale, oltre che nei confronti di una fetta della critica cinematografica che spesso tende ad accanirsi contro le opere Dogma. “La vita è come un film Dogma”, fa dire Von Trier ad un suo personaggio. Quale il significato? Che è il Dogma la corrente che più ha rappresentato la realtà? O che il movimento, ormai allo stremo delle forze e profondamente contaminato, ha influenzato a tal punto il nuovo modo di fare cinema creando un verità più reale della vita stessa?
Il regista danese, pur ritornando su alcuni punti cardine del decalogo Dogma, come il rifiuto della colonna sonora (fondamento che già da tempo aveva abbandonato), e l’uso di un montaggio serrato e ricco di scavallamenti di campo, decide di poggiare la macchina da presa su uno stabile treppiedi, optando per inquadrature immobili e quasi mai centrate, conferendo così alle immagini un effetto profondamente straniante.
Il grande capo è un gioco in cui viene palesato e pugnalato il fascino della finzione filmica e, allo stesso tempo, un modo per affermare uno stile, contraddicendolo. Questo è Lars Von Trier. Prendere o lasciare.


CAST & CREDITS

(Direktøren for det hele) Regia, soggetto e sceneggiatura: Lars Von Trier; fotografia: Claus Rosenløv Jensen; montaggio: Molly Marlene Stensgård; interpreti: Jens Albinus (Kristoffer), Peter Gantzler (Ravn), Fridrik Thor Fridriksson (Finnur), Benedikt Erlingsson (Interprete), Iben Hjejle (Lise), Henrik Prip (Nalle), Mia Lyhne (Heidi A.) Casper Christensen (Gorm), Louise Mieritz (Mette), Jean-Marc Barr (Spencer), Sofie Gråbøl (Kisser), Anders Hove (Jokumsen); produzione: LARS VON TRIER PER ZENTROPA PRODUCTIONS, MEMFIS FILM, SLOT MACHINE, ZIK ZAK KVIKMYNDIR; distribuzione: Lucky Red; origine: Dan, Sve; durata: 99’; sito ufficiale


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