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Il Grinta

Pubblicato il 18 febbraio 2011 da Luca Lardieri


Il Grinta

The wicked flee when none pursueth (Il malvagio fugge quando nessuno insegue).

Con questa citazione del Vecchio Testamento ha inizio il prolisso e oltremodo ambizioso western dei fratelli Coen, True Grit. Frase essenziale non solo per capire ed analizzare quest’ultima opera ma anche per approfondire meglio il discorso (o sarebbe il caso di dire il non discorso) intavolato negli ultimi anni dai due cineasti statunitensi, in cui il loro stile e l’impeccabile bravura nello sceneggiare e mettere in scena qualsiasi genere cinematografico rendendolo proprio, li ha portati (volutamente) a proporre un cinema vuoto. Un cinema in cui, non dovendo più dimostrare nulla, non essendo più “(in)seguiti” da nessuno ci si sente liberi di correre su se stessi. Un divertimento intellettuale in cui, in questo caso, si prende e si scompone un classico del cinema hollywoodiano (Il Grinta di Henry Hataway del 1969) e lo si riassembla omaggiando il romanzo di Charles Portis con lunghissime parti del testo originale, riportate fedelmente all’interno dei dialoghi. Qui risiede senza alcun dubbio il pregio principale del film dei Coen, capaci di dirigere magistralmente un cast sensazionale, mettendo loro in bocca frasi e costruzioni lessicali alquanto desuete e proprie di un’altra America (ciò purtroppo andrà inevitabilmente perso nel doppiaggio italiano) senza mai sembrare irreali. Se nel film del ’69 John Wayne, interpretava se stesso e il pubblico difficilmente riusciva a scindere la star dal personaggio (nonostante l’interpretazione all’epoca gli valse un Oscar), nella versione coeniana Matt Damon, Josh Brolin e soprattutto lo straordinario Jeff Bridges scompaiono non appena i loro nomi svaniscono dallo schermo, per lasciare spazio solo ed esclusivamente ai loro personaggi. Personaggi talmente ben scritti da sembrare reali, anche troppo e quindi troppo spesso splendidamente noiosi.

La storia (o sarebbe meglio dire il pretesto) prende vita nel polveroso Arkansas dell’Ottocento e ci presenta una ragazza di quattordici anni, Mattie Ross, che accecata dalla vendetta, decide di catturare ad ogni costo Tom Chaney (Josh Brolin), ubriacone che ha ucciso suo padre a bruciapelo senza un valido motivo. Mattie dopo essere riuscita a racimolare il denaro necessario, assolda Marshall Cogburn (Jeff Bridges), uomo burbero, appesantito dall’età e dai chili di troppo per aiutarla a stanare il vigliacco assassino. I due, insieme al Texas Ranger LaBoeuf (Matt Demon), anch’egli sulle tracce di Chaney per un omicidio commesso in Texas, inizieranno un lungo e singolare percorso alla ricerca della “giustizia”.

In questa visione di selvaggio west coeniano mutuata e allo stesso tempo riadattata dal romanzo di Portis, le vite umane hanno poco valore e spesso vengono usate come pura e semplice merce di scambio. I personaggi che vi ruotano attorno non intendono e non fanno intendere mai la giustizia nella sua accezione più propria, ovvero come principio morale consistente nel dare a ciascuno il dovuto secondo un giudizio equo, bensì come alla messa in pratica di un baratto. La vita di un uomo per quella di un altro o in cambio di denaro. È qui che i Coen riescono a risultare interessanti e più “onesti” rispetto ad altri registi che si sono cimentati nel genere, cercando cioè di non far mai intuire o credere allo spettatore che ciò che sta avvenendo sia prodotto di giustizia o di ingiustizia, ma solamente un avvenimento, un pretesto appunto. La storia non sarebbe altro se non una classica storia di caccia all’uomo con un trio di protagonisti che in una normale situazione non si sarebbero mai scelti come compagni di viaggio. Cosa che ancora una volta spiazza e destabilizza guardando alla loro ultima produzione. Infatti quando i fratelli Coen decidono di cimentarsi con un genere che appartiene alla Hollywood classica (film noir come Sangue Facile e Fargo, gangster movie come lo splendido Crocevia della morte e commedie come Mister Hula Hoop) di solito il risultato è sempre molto arguto e stilizzato, cosa che non avviene in True Grit che invece risulta essere molto classico eccezion fatta per l’importante ma non fondamentale visione aperta del concetto di giustizia.
In sostanza, il film dei Coen è un western molto bello che merita la pioggia di oscar a cui è stato candidato, soprattutto analizzando l’attuale scenario proposto dal cinema contemporaneo ma a noi sembra che il duo di Minneapolis abbia perso molto del tocco sagace e ironico che lo rendeva unico per lasciar spazio ad un’età matura di sicuro impatto visivo, ma troppo studiata a tavolino, troppo volutamente e vuotamente intellettuale. Che la spocchia che li ha sempre contraddistinti nelle loro conferenze stampa si sia definitivamente trasferita su pellicola?


CAST & CREDITS

(True Grit); Regia e montaggio: Ethan e Joel Coen; sceneggiatura: Ethan e Joel Coen liberamente tratta dal romanzo Un vero uomo per Mattie Ross di Charles Portis; fotografia: Roger Deakins; musica: Carter Burwell; interpreti: Jeff Bridges (Rooster Cogburn), Matt Demon (LaBoeuf), Josh Brolin (Tom Chaney), Hailee Stainfeld (Mattie Ross); produzione: Paramount Pictures, Skydance Productions, Scott Rudin Productions, Mike Zoss Productions; distribuzione: Universal Pictures; origine: USA 2010; durata: 128’;


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