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Il gusto dell’anguria

Pubblicato il 5 dicembre 2005 da Matteo Botrugno


Il gusto dell'anguria

Soft porn? Musical? Tragicommedia grottesca? La nuova perla di Tsai Ming-Liang sfugge ad ogni tipo di definizione. La trama è molto semplice: un uomo e una donna si rincontrano dopo tanti anni, si frequentano, s’innamorano. Il tutto avviene durante un periodo in cui Taiwan è soggetta ad una siccità che provoca la mancanza d’acqua, la quale è addirittura più costosa del succo d’anguria. Già da questi pochi tratti si intravede uno dei temi tipici del cinema dell’autore malese, ovvero l’apocalittico scatenarsi di forze esterne all’uomo, ma che in un certo qual modo sono sia la causa della presa di coscienza del suo torpore, sia la base che metaforicamente ne indica il profondo malessere esistenziale. I protagonisti inoltre, interpretati dai due attori preferiti da Tsai Ming-Liang, ovvero gli ottimi Lee Kang-Sheng e Chen Shiang-Chiy, rappresentano il tema su cui il cineasta malese insiste fin dai tempi di Vive l’amour: la solitudine opprimente dell’individuo schiacciato dal caos delle grandi città, perso in mondo personale che il regista osserva cinicamente dall’esterno, imponendoci allo stesso tempo di partecipare emotivamente al dramma, con sguardo fisso, immobile, come un qualcosa che non vogliamo vedere ma da cui non riusciamo a distogliere la nostra attenzione. Tramite l’utilizzo di una splendida fotografia, minuziosa e curata fin nei minimi dettagli, Tsai Ming-Liang ci ha portato nei meandri più oscuri dell’animo umano, conducendoci in viaggi in cui la parola è sostituita dalla forza del silenzio e dalla pittoricità dell’immagine cinematografica.
Ne Il gusto dell’anguria, il regista mantiene saldamente anche altri tratti caratteristici del suo cinema. L’anguria stessa era in Vive l’amour lo sfogo delle voglie erotiche dell’omosessuale represso. In questo film invece, il frutto diventa l’oggetto che si antepone al soggetto (l’uomo), inglobando in sé la metafora del desiderio sessuale e dell’amore, nonché visivamente la rappresentazione di una vagina da penetrare con dita e lingua (come si può notare dalla sfolgorante scena iniziale). I due giovani protagonisti si piacciono e provano ad amarsi, ma non riescono ad trovare fisicità nel loro rapporto fatto di sguardi e di silenzi. Lei si masturba, e lui fa lo stesso a sua volta mentre la guarda; il sesso è un mestiere per il giovane innamorato, in realtà porno attore. La dolcezza e l’intimità che si crea tra loro sono in realtà, come vene mostrato in una delle scene più suggestive del film, fragili e vacue come il fumo di una sigaretta tenuta tra le dita dei piedi di lei.
I liquidi dominano il film. L’acqua, simbolo della poetica di Tsai Ming-Liang, non è più rivelatoria come quella sudicia de Il fiume, e neanche sinonimo di crisi devastante come quella che distrugge le case dei due giovani in The hole, facendoli poi incontrare. Ne Il gusto dell’anguria l’acqua è un bene raro e prezioso, ma più che manifestarsi nella sua presenza, si manifesta nella sua assenza, rappresentando la ‘mancanza’, quel quid da cui l’uomo è lontano. Succhi d’anguria e liquidi seminali suppliscono alla ‘mancanza’, divenendo rappresentazione della sostituzione, del mancato appagamento, della repressione, dell’infelicità stessa.
Ma ciò che rende diversa questa pellicola dagli altri lavori del regista è l’aggiunta di un elemento stilistico finora assente nella sua filmografia: l’ironia. Questa tendenza si evince tanto nelle scene in stile musical, quanto in quelle prettamente erotiche. Per quanto riguarda gli intermezzi musicali, anche in questo caso Tsai Ming-Liang non è nuovo all’inserimento di canzoni all’interno dei suoi film (già in The hole la protagonista proietta i suoi desideri in questa singolare maniera). Ne Il gusto dell’anguria vengono sì riproposte sequenze di questo tipo, ma in modo più esteso, poiché vengono presi in considerazione non solo i sogni della protagonista, ma anche del porno attore e della sua partner sul set. Una ballata e una canzonetta anni ’60 per l’aspirazione all’amore puro, un jazz lento e sensuale per le confessioni della porno attrice, un brano in musical vecchio stile con un canto d’amore esilarante quanto idiota, un blues traspirante ironia ed erotismo (le donne hanno birilli sui seni e il protagonista un cappello a forma di glande): oltre a mettere in evidenza quanto sia ridicolo l’innamoramento e soprattutto quanto siano dolorose la repressione, la solitudine e la mancanza di comunicazione nella vita reale, ‘fuori dai sogni’(malgrado le sforzo dei due nel creare una certa intimità), i brani proposti sono uno sfottò più che evidente nei confronti del tipico musical farcito da storia d’amore di stampo statunitense, ove si dipinge solo l’esteriorità dell’amore stesso.
Cos’è l’amore per Tsai Ming-Liang quindi? L’uso che fa dell’erotismo sembra chiarirci le idee. Il sesso non è più quel demone che costringe padre e figlio inconsapevoli ad incontrarsi in una sauna per gay (Il fiume), ma assume una funzione ambivalente: l’una volta a ironizzare sulla superficialità dell’atto sessuale compiuto in maniera meccanica; l’altra invece volta ad evidenziare in modo più netto la tendenza umana a reprimersi. I due giovani si amano, ma non riescono a fare sesso, anche se ad esempio lui ne è capacissimo, dato il suo mestiere, che compie in maniera meccanica e ripetitiva.
L’ultima (o)scena, rappresenta davvero l’apoteosi del radicale pessimismo del regista. Non la anticiperemo ovviamente per non toglierne il gusto allo spettatore. Ma la sensazione che ci ha lasciato non è quella che si ha di fronte ad una provocazione gratuita. Non è neanche l’impercettibile filo che lega eros e thanatos a rendere affascinante quest’ultima, lunghissima ed estenuante sequenza. Le distanze a volte sono colmabili se l’uomo si libera dalle proprie repressioni e dal retaggio della propria sofferenza? Oppure un’inesorabile parete bianca (visibile o meno) continuerà ad impedire una qualsiasi forma di comunicazione? Invece di risponderci siamo rimasti come la giovane protagonista: riempiti, soffocati, silenti.
Opera assolutamente geniale, un gran ritorno del cineasta malese trapiantato a Taiwan, che continua comunque a rimanere coerente nel suo stile e nel suo ’lavoro di sottrazione’ e che ci porta una ventata di freschezza e di intelligente provocazione, che lasciano però l’amaro in bocca, più che il dolce sapore dell’anguria.

[Novembre 2005]

Cast & credits:

Tian bian yi duo yun - The wayward cloud

Regia, soggetto e sceneggiatura: Tsai Ming-Liang; fotografia: Liao Pen-Jung; montaggio: Chen sheng-Chan; interpreti: Lee Kang-Sheng, Chen Schiang-Chiy, Lu Yi-Ching, Yang kuei-Mei; produzione: Arena Films, Homegreen Films, Arte France Cinema; distribuzione: BIM; origine: Fr., Taiwan; durata 109’.

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