IL PANE NUDO

Tratto dal romanzo di Mohamed Choukri, considerato uno dei più grandi autori della letteratura araba contemporanea, l’ultimo lavoro di Rachid Benhadj racconta la storia di Mohamed, uno dei tanti giovani cresciuti nelle baraccopoli ai margini di Tangeri. Il regista algerino torna dunque a parlare del periodo dell’infanzia (lo aveva già fatto in Mirka e in Touchia - Il cantico delle donne di Algeri), e lo fa senza snaturare il carattere autobiografico dell’opera a cui si ispira, ma anzi, mostrando con gli occhi di un bambino il significato di vivere “una vita senza pane” fatta di soprusi, di miseria, di ignoranza.
Il pane nudo è dunque un film molto duro, un’opera in cui ogni singola immagine si trasforma in poesia violenta e lacerante, che critica l’integralismo da una parte e l’odierno punto di vista europeo sul mondo arabo dall’altra. Benhadj non solo riesce a farci guardare con gli occhi di Mohamed, ma manifesta la sua intenzione di dipingere un periodo storico, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, i cui orrori non devono essere dimenticati. L’integralismo non è uno spettro, ma è più vivo che mai. Lo sa bene il regista, più volte minacciato e impossibilitato a tornare in patria. Lo sapeva bene Choukri, che non ha potuto mai realizzare il sogno di veder pubblicato il suo romanzo nei paesi arabi, in cui è tutt’ora vietato, malgrado fosse un’opera apprezzata in tutto il mondo e che contribuiva a mostrare l’altra faccia della medaglia di una cultura che in fondo conosciamo ancora così poco.
¬¬_ L’infanzia e l’adolescenza sono i momenti-chiave per quanto riguarda la formazione caratteriale di un individuo. Il forte contrasto sociale tra i benestanti coloni francesi e i baraccati algerini, le estreme condizioni di povertà e l’inaudita violenza domestica distorcono completamente il senso stesso dell’infanzia. La figura della donna, già così abilmente dipinta in Touchia, diventa di nuovo simbolo di un’oppressione ingiustificabile. Il mondo femminile viene rappresentato in duplice maniera dalla madre di Mohamed e da Sallafa, moglie di un contrabbandiere che diventa amante del giovane a vent’anni. La prima è una donna sconfitta, emblema di una generazione che accetta passivamente la fame, la violenza e le superstizioni; la seconda invece, pur essendo imprigionata fra le mura della sua casa, diviene simbolo della presa di coscienza del mondo esterno, della voglia di cambiare, di ricominciare. La sessualità di Mohamad, fortemente condizionata in fase adolescenziale da rapporti con prostitute e con pedofili europei in cerca di ragazzi di strada, pone queste due donne come punto d’inizio, in cui il giovane crede che una moglie vada picchiata di giorno e coccolata di notte, e come punto di arrivo, una svolta fondamentale tramite la quale Mohamad diverrà un uomo e conoscerà il significato dell’amore, avendone però paura.
Qual è allora il comune denominatore di una giovinezza fatta di stenti, di vizi, di sessualità malata, di continui soprusi, se non l’ignoranza, che sembra uccidere più della fame? Benhadj ha insistito nel concentrare il nucleo del suo film nelle carceri di Tangeri, in cui Mohamad conosce un detenuto politico antimperialista. L’uomo, interpretato dallo stesso regista, scrive una poesia sul muro della prigione, fra le urla e i lamenti degli altri reclusi: il ragazzo, essendo analfabeta, chiede cosa ci sia scritto. Il rivoluzionario legge la poesia, le cui lettere sono tracciate con una pietra sul muro umido della cella, poesia che parla di libertà e di uguaglianza. Mohamad non capisce il senso di quelle parole, ma sente l’impulso, per la prima volta nella sua vita, di voler capire, di voler uscire dall’ignoranza che lo ha reso cieco di fronte alla speranza di poter anche solo considerare la possibilità di una vita migliore. La prima parola che il giovane impara a scrivere è ‘àb’, padre, prima simbolo di ogni oppressione e violenza (il padre di Mohamed uccise il fratellino davanti ai suoi occhi), per poi divenire l’emblema del riscatto e della voglia di ricominciare.
¬ _ Opera completa e ben interpretata (nel cast figurano Said Taghmaoui, già protagonista de L’odio, e la bravissima esordiente Marzia Tedeschi), Il pane nudo offre diversi spunti di riflessione. Innanzitutto vale la pena di soffermarsi sulla forza espressiva del cinema di Benhadj, sia a livello di forma che di contenuti. L’autore algerino, anche pittore, lavora sull’immagine come se fosse una tela, mescolando diverse atmosfere, dalle più crude alle più sublimi, come se fossero colori ad olio, o, prendendo spunto da una toccante scena del film, dipingendo le immagini col rosso del sangue e con il bianco del latte. Violenza e candore dell’infanzia vanno pari passo quindi, finchè Mohamed non trova la forza di aggrapparsi alla speranza. Ci riesce tramite la scrittura, che diventa la luce che illumina il suo volto e la cella i cui muri sono stati riempiti di scritte; una luce violenta, come se il ragazzo fosse uscito una seconda volta dal grembo materno. Benhadj ci mostra un mondo arabo diviso: da una parte si trovano gli integralisti, vittime (più che carnefici) della loro stessa ignoranza, dall’altra invece, un desiderio di ricominciare, di abbattere la credenza tutta europea ed americana che il fondamentalismo sia alla base della cultura araba. Benhadj ce lo spiega in ogni fotogramma del film, così come aveva fatto Choukri, morto nel 2003, a due settimane dalla fine delle riprese.
Di fronte a tanta violenza e a tanto oscurantismo, l’autore algerino lascia intravedere la possibilità di un riscatto, rappresentata da un uomo che scrive le sue memorie fra le lapidi di un cimitero, in un silenzio carico del rispetto e delle aspettative di cui non vi era traccia nell’urlo angoscioso nel finale di Touchia. Ci auguriamo che Il pane nudo sia non solo fondamentale per iniziare a conoscere l’opera di Benhadj, artista eclettico sospeso tra la cultura araba e quella europea, ma anche un messaggio di speranza che alimenti il dialogo tra le due culture.
(El khoubz el hafi) Regia: Rachid Benhadj; soggetto: dal romanzo El khoubz el hafi di Mohamed Choukri; sceneggiatura: Rachid Benhadj con la collaborazione di Mohamed Choukri; fotografia: Pierluigi Santi; montaggio: Eugenio Alabiso; musica: Safy Boutella; scenografia: Francesca Salvii; costumi: Giusy Nicoletti; interpreti: Said Taghmaoui (Mohamed giovane), Marzia Tedeschi (Sallafa), David Halevim (Haddou), Sana Alaoui (Mimuna), Faycal Zeghadi (Mohamed a 12 anni), Bilel Lahsini (Mohamed a 6 anni), Karim Benhadj (Taferseti), (Ahmed El Kouriachi (Kabil), Jamil Hammoudi (Ali), Daniel Ducruet (guardiano prigione); produzione: A.E. Media; distribuzione: A.E. Media; origine: Francia, Italia, Marocco; durata: 100’.
