Il settimo sigillo

#iorestoacasaecritico approda al suo tredicesimo appuntamento. Tredici: un numero sfortunato nei paesi anglosassoni dal momento che si ritiene che, se si si è tanti a tavola diventa giocoforza che presto arrivi anche la Morte. Perché allora non chiamarla direttamente? Ci pensa allora Ingmar Bergman col suo Settimo Sigillo ad aprire le porte alla convitata indesiderata. Firma per noi e fa gli onori di casa Matteo Galli.
Diciassettesimo film di Ingmar Bergman (su un totale di trentanove girati per il cinema), Il settimo sigillo è certamente, insieme al quasi coevo Il posto delle fragole (16 febbraio 1957 la prima proiezione dell’uno, 26 dicembre 1957 la prima proiezione del secondo), il suo film più celebre oltreché più parodiato (invitiamo a dare un’occhiata a questo sito e agli esempi ivi racchiusi: https://www.ingmarbergman.se/en/uni...). A rivederlo più di sessant’anni dopo, anche a confronto con i film ad esso cronologicamente assai prossimi che – come scritto in un pezzo precedente - stiamo rivedendo per l’appunto in sequenza non ci pare in grado, fino in fondo, di reggere le insidie del tempo e per così dire di essere all’altezza del suo mito.
Proveremo a spiegare perché, non senza aver brevemente riassunto il plot per chi lo avesse visto da troppo tempo o per chi non lo avesse visto affatto. Il film è ambientato nel XIV secolo e racconta il ritorno dalle Crociate di Antonius Block (Max von Sydow all’esordio con Bergman) e del suo scudiero Jöns nella natia Svezia infestata dalla Peste Nera. Le Crociate le ha superate indenne, dalla Peste Nera sembra proprio che nel corso di tutto il film non verrà contagiato, eppure la Morte, con falce e mantello, gli si è messa alle calcagna e ha deciso che è scoccata la sua ora. Block ottiene una dilazione sfidando la Morte a scacchi, gioco in cui ha ben poche possibilità di risultare vincitore perché la Morte di partite non ne ha mai persa neanche una, e proprio per questo la Morte accetta. La dilazione Block la chiede soprattutto per compiere una buona azione che lo riscatti (pare proprio che le Crociate siano state un totale fallimento al riguardo, una gran carneficina soltanto). Dopodiché ha inizio una serie di episodi (se abbiamo contato bene, oltre a quello iniziale, sono in tutto quindici) che descrivono sostanzialmente tre ordini di vicende: 1) gli incontri di Block e del suo scudiero, personaggio contrassegnato da un profondo agnosticismo cinico, con una serie di altri personaggi minori, per lo più abbrutiti anche dall’epidemia circolante; 2) la storia, in parte intrecciata a quella di Block e di Jöns, di una famiglia di saltimbanchi dai nient’affatto casuali nomi di Jo(se)f e M(ar)ia ovviamente con bambino; 3) la descrizione della Peste Nera e di tutti i fenomeni psico-sociologici che essa scatena (i flagellanti, la caccia alle streghe, la diffidenza generale). La scena più celebre, oltre a quella iniziale, resta quella della confessione nella quale Block manifesta apertamente - a un personaggio dietro la grata che immagineremmo essere un prete, dato che la scena si svolge in una chiesa ma che in realtà, di nuovo, si rivela, beffarda, essere la Morte -i propri angosciosi dubbi sulla Fede, la Verità, la Conoscenza, tutti sostantivi rigorosamente da scriversi maiuscoli. L’unico altro personaggio in grado di stare all’altezza di Block non è, come si potrebbe immaginare, la Morte, essendo una figura tutto sommato piatta e alla fine anche un po’ stupidotta (allorché Block riesce a distrarla in modo tale da mettere in salvo la Sacra Famiglia e dunque compiere la buona azione auspicata), ma per l’appunto lo Scudiero (interpretato dal sempre meraviglioso Gunnar Björnstrand). Compiuta la buona azione, ecco che la Morte si porta via tutta la carovana di figure addensatesi intorno a Block: la moglie, lo scudiero e altre figure minori, su un crinale in lontananza, contemplati dalla Sacra Famiglia su cui ricostruire una speranza di rinascita in questi tempi bui. Basato su un radiodramma dello stesso Bergman intitolato Pittura su legno, Il settimo sigillo è un film, se non lo si fosse capito, pesantemente allegorico che, pur potendosi basare su una straordinaria forza di immagini, alcune delle quali davvero memorabili, ha il grande difetto di non limitarsi a mostrare ma di esagerare nel dire: la scena della confessione avanti a tutte, ma anche tutta la scena edenica del déjeuner sur l’herbe/Eucarestia di Block con la Sacra Famiglia con fragole e latte. La scena del teatro popolare interpretata da Jof e Mia e fino a un certo punto dal loro capocomico Skat è troppo troppo lunga. Più in generale: la commistione di alto e basso che a Bergman certe volte, anche in altri testi di impianto fortemente teatrale, riesce in modo mirabile, pensiamo a Sorrisi di una notte d’estate o anche a certe sequenze del Posto delle fragole e ancor più allo splendido Il volto, qui zoppica un po’. E zoppica un po’ anche questo Medioevo corrusco e filologicamente rivedibile con Crociate e caccia alle streghe nello stesso secolo. Per finire anche il dialogo fra Jöns e il pittore di danze macabre suona, alla fine, molto asteriscato, della serie: ecco a voi, signore e signori, una riflessione metalinguistica su arte e realtà. Talché viene forse anche da spiegarsi come mai, al di là dello statuto di culto che il film fin da subito ha ottenuto, Il settimo sigillo sia presto diventato anche parodia. Sulla rappresentazione dell’epidemia, chi legge ci perdonerà, tacciamo.
