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IN UN ALTRO PAESE

Pubblicato il 10 febbraio 2006 da Matteo Botrugno


IN UN ALTRO PAESE

“Per fare il magistrato devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche”. Con questa affermazione il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si accingeva a dichiarare guerra alla magistratura e a varare delle leggi su misura che garantissero incolumità a se stesso e ad altri esponenti di Forza Italia. Una dichiarazione, quella del premier, che cozza con quella di Paolo Borsellino: “Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno”. Tali discrepanze non sono solo alla base delle riflessioni di In un altro paese, ma diventano anche un enorme punto interrogativo sugli odierni collegamenti tra mafia e politica.
La mafia è stata spesso soggetto di lavori per il cinema e per la televisione: dai capolavori di Francis Ford Coppola e Martin Scorsese ai poliziotteschi degli anni 70’, dai documentari Rai agli squallidi instant movie degli anni 90’, dai lavori di Petri e Damiani fino alla fortunata serie televisiva La piovra. Il lavoro di Marco Turco si discosta però sia dalla fiction che dalla semplice inchiesta giornalistica, poiché adotta un approccio storico finalizzato a chiarire l’importanza del lavoro di Falcone e Borsellino. Lungi dall’essere solamente un (giusto) omaggio ai due magistrati palermitani, il film racconta trent’anni di mafia tra attentati, cambi di potere, collegamenti con il mondo della politica.
L’opera, col suo procedere su diversi piani narrativi, non è mai monotona e riesce ad alternare momenti diversi in cui l’approccio storico si mescola con la drammaticità del ricordo di una Palermo in ginocchio, ma sempre pronta a rialzarsi, tramite gli scatti e la voce di Letizia Battaglia, la ‘fotografa della mafia’.
In un altro paese si basa sul libro di Alexander Stille intitolato Excellent cadavers - The mafia and the death of the First Italian Republic: il giornalista americano è anche co-sceneggiatore e narratore delle vicende enunciate nel film (la voce gli viene ‘prestata’ da Fabrizio Gifuni). La visione oggettiva del documentario si manifesta con la presenza di numerosi filmati di repertorio, specialmente quelli del maxi-processo, concessi dalla RAI, e integrati da numerose interviste a chi ha combattuto la guerra alla mafia, da Falcone e Borsellino appunto, ai giudici istruttori del primo pool anti-mafia Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello, dal ex pm Giuseppe Ayala al magistrato Francesco Lo Voy.
Il film di Turco parte da esecuzioni apparentemente distanti fra loro, cioè quella di Capaci e di via D’Amelio e l’omicidio di Salvo Lima, consigliere regionale della corrente andreottiana della DC. In realtà tramite la ricostruzione di anni di processi, di attentati e tra guerre tra palermitani e corleonesi, e le confessioni di Tommaso Buscetta, si arriva alla conclusione che mafia e politica sono andate sempre a braccetto. Una collaborazione sotterranea, che inizia addirittura dalla fine della seconda guerra mondiale, quando la DC dà la possibilità ad alcuni membri di Cosa Nostra di inserirsi nell’amministrazione pubblica. “La mafia non ha ideologia. Sta dalla parte del potere”, e con queste parole Giuseppe Ayala intende spiegare il passaggio dei rapporti tra Cosa Nostra ed alcuni esponenti della DC a quelli con i socialisti durante il governo Craxi. Eloquente, per quanto riguarda il legame tra mafia e politica, è anche l’affermazione di Ignazio De Francisci nel sostenere che “la guerra alla mafia si combatte in Sicilia ma si vince a Roma”.
Oltre ad una notevole rievocazione storica di un capitolo nero della storia italiana, il film ha come suo punto di forza il coraggio di puntare il dito contro le negligenze dello Stato, che, dopo i successi ottenuti dal pool anti-mafia alla fine del maxi-processo nell’86, fece in modo che Falcone e Borsellino, i maggiori artefici di quel successo, fossero scalzati dai loro incarichi, e non fossero messi nelle condizioni di poter vincere definitivamente la guerra da loro iniziata. Solo dopo l’uccisione dei due magistrati e l’insorgere di una Palermo infuriata, lo Stato non potè più far finta di non vedere. Si arrivò allora a risultati importanti, come l’arresto del boss Totò Riina e al varamento della legge sugli sconti della pena per i pentiti, da anni richiesta invano da Falcone e Borsellino. L’Italia ha ricominciato però a dimenticare. Gli interrogativi alla fine del film sono numerosi: in un altro paese sarebbe potuto succedere tutto questo? Trent’anni di massacri e di ‘cadaveri eccellenti’ non sono stati sufficienti per effettuare un ultimo, definitivo attacco contro Cosa Nostra? E per quanto riguarda il lavoro e il sacrificio dei due magistrati, ne è valsa davvero la pena? Per Ayala e Lo Voy, presenti in sala il giorno della prima, sicuramente sì. Ma diventa necessario l’appoggio dello Stato e dei politici, quelli veri, per arrivare a sconfiggere definitivamente la nuova mafia, che non manifesta più la sua presenza con attentati, ma è comunque presente nell’amministrazione pubblica e nella politica italiana. Abbiamo davvero bisogno di altri cadaveri eccellenti per svegliarci dal torpore e ricominciare a lottare contro un fenomeno più che mai vivo? Dobbiamo davvero continuare a sottostare a dichiarazioni che infangano la memoria di chi ha condotto una vita d’inferno pur di contrastare la mafia, e ad accettare che gente come Marcello Dell’Utri, condannato a sette anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso, sia ancora senatore nonché eroe di Forza Italia in quanto simbolo della vittoria della democrazia?
La forza di In un altro paese si manifesta “nella rievocazione storica con l’approccio dell’objectivity, tipica del giornalismo americano, adottato da Stille nel suo libro”, sostiene la produttrice Vania Del Borgo, “ma è anche un omaggio a coloro che hanno creduto e che ancora credono nella possibilità di sconfiggere la mafia, nonché una dura critica verso un mondo politico troppo poco propenso a guidare una guerra che rischia di essere di nuovo persa”. Un lavoro coraggioso, in cui l’oggettività della narrazione viene accompagnata dalla forza del ricordo della gente comune, con un approccio lontano da ogni forma di retorica, che si può riassumere in due parole scritte sui muri di Palermo e immortalate da Letizia Battaglia: “Grazie Falcone”.
Trionfatore al 46° Festival dei Popoli, il film ha riscosso un buon successo anche alla 58° edizione del Festival di Locarno, per cui, prima di approdare sulle sponde di Rai Tre, si tenta di proporlo nelle sale, sperando che possa ricevere tutte le attenzioni che merita. In un altro paese rappresenta l’altra faccia del cinema italiano. Un cinema coraggioso, evocativo ed emozionante, quanto mai necessario.

(Id.) Regia: Marco Turco; soggetto: tratto da Excellent cadavers - The mafia and the death of the First Italian Republic di Alexander Stille; sceneggiatura: Vania Del Borgo, Alexander Stille, Marco Turco; fotografia: Franco Lecca, Enzo Carpineta; ricerche fotografiche: Letizia Battaglia; montaggio: Luca Gazzolo; musica: Andrea Pandolfo, C.A.M. Original Soundtracks; repertorio: Rai Radiotelevisione Italiana, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (Roma), B&B Film (Roma) Blue Service (Trapani), Francesco La Bruna (Monreale), Manfredi Produzioni (Palermo), La solitudine del Giudice Falcone realizzato da Claude Goretta e Marcelle Padovani e prodotto da Les Productions JMH, RTSR, Aura Film, Les Films du Phare (1988); voce narrante: Fabrizio Gifuni (Alexander Stille); interviste: Letizia Battaglia, Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello, Giuseppe Ayala, Ignazio De Francisci, Antonio Ingoia, Francesco Lo Voy, Francesco La Licata; produzione: Vania Del Borgo, Marco Visalberghi, Olivier Mille e Alexander Stille per Doclab, RaiTre, Artline Films, France 2, BBC Storyville, Yle Teema, SVT, SBS TV Australia; distribuzione: Fandango (2006); origine: Fra/It; durata: 92’.

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