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Incontro col pubblico: Mario Martone

Pubblicato il 24 marzo 2008 da Mario Bove


Incontro col pubblico: Mario Martone

Mario Martone è uno di quei registi italiani che vive la sua carriera al di sotto di quel sottile crinale della notorietà, capace però di guizzare alla ribalta con le sue opere cinematografiche. Nato come regista teatrale, divide la sua produzione fra celluloide e palcoscenico con un eguale ricerca della qualità e dell’impegno civile.
Fra gli ulivi del restaurato Convento del Santo Spirito, eremo solitario sulle montagne salernitante datato 1450 ca, Martone ha conversato di cinema e teatro, un po’ restio al microfono ma più a suo agio con la solida copertura offerta dalle immagini delle sue opere, proiettate durante i dialoghi con il prof. di Storia del Teatro all’Università di Salerno, Rino Mele, ideatore della rassegna Muse che ha ospitato l’artista napoletano il 14 ed il 15 marzo nel comune di Pellezzano.

Due incontri in cui i relatori hanno duettato fra poesia, tragedia greca e proiezioni, fino ad indicare un percorso d’approccio del regista ai suoi due linguaggi d’espressione. Accanto alle parole, le immagini che hanno reso celebre il regista, da Morte di un matematico napoletano, il discorso meta-teatrale di Teatro di guerra, o l’ultimo dramma de L’odore del sangue, insieme ad alcuni stralci ripresi durante le messe in scena degli anni, fra cui il Tancredi e Clorinda, realizzato per il Festival di Ravello in costiera amalfitana.

L’autore è attualmente impegnato nella fase di pre-produzione della pellicola in costume Noi Credevamo, interpretata da Luigi Lo Cascio, le cui location saranno allestite principalmente a Torino. La storia si concentrerà sulle vicende di un gruppo di rivoluzionari appartenenti alla Giovine Italia lungo un arco di trent’anni durante l’epopea risorgimentale italiana.

Durante il secondo appuntamento di Muse, la sala che un tempo ospitava il refettorio del convento ha raccolto un pubblico attento alle digressioni con cui Martone ha disegnato una mappa che, tramite le opere da lui curate, ha legato assieme con poesia Napoli, Tebe ed Euripide. Tre i lavori maggiormente citati dall’autore sono le sue recenti rappresentazioni de I Sette contro Tebe di Eschilo, l’Edipo Re e l’Edipo a Colono di Sofocle. “Uno dei temi fondamentali del teatro classico”, ha esordito, “è ricostruire la dimensione della polis greca. Si lavora con una lingua morta, si fruga fra i frammenti incompleti delle tragedie. Quindi il rapporto è sempre basato sulla propria città e, contemporaneamente, su questo lavoro di ricostruzione della polis”. Il direttore ha poi indicato nell’uso sperimentale del coro il territorio in cui preferisce osare, proprio perché questo è l’elemento che sottolinea con più forza le differenze fra le forme del teatro classico e di quello moderno. “Il coro è la parte più oscura, più lontana dal contemporaneo”, ha aggiunto. Martone ha quindi insistito sul rapporto viscerale che ha voluto imprimere nella realizzazione di questi tre testi, legandoli alle città in cui sono andati in scena. “Sono nati come lavori unici, pensati per lo spazio e per le città dove poi sono ‘rinate’. Ed infatti, non riesco a vederli come spettacoli itineranti”.

Spostandosi, in seguito, lungo il lavoro dietro la macchina da presa, il discorso è tornato sul rapporto fra storia, immagine e città nei documentari dedicati ai pittori Luca Giordano e Caravaggio, entrambi ambientati a Napoli ed immersi in quella sua luce eternamente barocca. “Ho cercato di far dialogare queste esperienze”, ha proseguito seguendo le suggestioni del prof. Mele, “così come ho cercato di comporre il dualismo fra la Napoli degli anni ’90 e quella ricostruita del ’59, anno in cui è ambientato Morte di un matematico napoletano…”. Ma sempre in riferimento alla pellicola sugli ultimi giorni di vita dell’illustre matematico Renato Caccioppoli, oltre al dato urbano, Martone ha chiarito di aver voluto dare una connotazione “politica” al film, in cui restituire il senso di disfatta, di svuotamento, di perdita di identità della sinistra post ’56. Stesso approccio, anche se in tempi mutati, per il significato alle spalle de La Salita, episodio del film I Vesuviani. Qui il regista ha voluto sottolineare il senso di un’apologia della sinistra che avesse però uno sbocco più onirico, non del tutto legato ad una situazione contingente. Il politico che sale sul crinale del vulcano partenopeo somiglia solo incidentalmente a Bassolino, ma può essere meglio inteso come una figura tendente all’astratto impegnato in una riflessione, politica, sulla realtà di allora.

L’INTERVISTA

Lei si è cimentato sia con il teatro che con il cinema. Quanto questi due linguaggi possono integrarsi e quanto, invece, sono separati? Sono rami di uno stesso albero evidentemente, quindi è naturale che ci siano degli incroci. E’ anche vero però che sono linguaggi diversissimi. E’ importante capire che si possono fare entrambi, ma facendo funzionare due parti del cervello, lasciando aperte tutte le porte possibili per tutti gli incontri possibili. Essenzialmente questi riguardano il lavoro con gli attori, il concetto di spazio scenico che interessa sia il teatro che il cinema… Certo, si declina in maniera diversa, ma sono un terreno comune ad entrambe.

Preferisce lavorare con attori che deve dirigere in maniera minuziosa o con interpreti di lungo corso che creano da sé il personaggio? Mi piace fare tutte e due le cose. Non c’è poi una così grande differenza… Non è che un attore, perché sia più esperto, costruisca da solo il personaggio mentre uno più giovane no… Nei due casi è sempre in gioco una relazione fra un regista ed un attore. Ma non è una cosa che dipende solo dall’esperienza o dall’età. Ci sono attori che hanno bisogno o che desiderano essere maggiormente instradati, mentre altri sono più intuitivi e preferiscono essere lasciati liberi o diretti con poche parole. Non c’è una sola strada o un solo modo, perché in fondo con ogni attore, con ogni persona, è sempre diverso il rapporto che si stabilisce, e perché poi ogni interprete ha un modo particolare di portare il suo mondo davanti alla macchina da presa.

Cosa deve avere una storia per convincerla a costruire un film? Non so, io ho fatto pochi film… Si deve accendere una “luce”, qualcosa che improvvisamente vedi ed hai una specie di “rivelazione”. Può accadere leggendo un libro, parlando con un amico, ascoltando, guardando… Non c’è un’origine più precisa per un film, può essere ovunque. Però parto sempre con la visione di cosa potrebbe essere quel film e quindi inizia il mio lungo percorso in cui cerco di ritrovare questa prima intuizione, ma posso anche cambiarla, modificarla, andare oltre. C’è sempre una prima intuizione ed è sempre qualcosa di “misterioso”. Ad esempio un libro, anche se più cinematografico, per così dire, ti può convincere meno per la realizzazione di un film e magari poi un altro testo, più ostico dal punto di vista cinematografico, può darti quella scintilla.

Può raccontarci qualche aneddoto particolare che ricorda sui suoi esordi al cinema? Il mio primo film è stato Morte di un matematico napoletano. Ricordo che il primo giorno di ripresa andai sul set viaggiando in pullman e questa cosa mi divertì molto. Mi piaceva molto considerare quel tragitto come la parte conclusiva di un lungo viaggio…

Si parla spesso di crisi del cinema italiano, sia sul versante della produzione che dei contenuti. Cosa ne pensa? Vede una soluzione? Soluzioni? Figuriamoci, non ne ho di soluzioni… La crisi esiste da quando c’è la televisione. Ma questo vale per l’Italia così come un po’ in tutti i paesi, America compresa. Anche lì non siamo più ai tempi d’oro di John Ford o della grande fioritura degli anni ’70… La televisione c’era anche allora, ma oggi è diverso, oggi ha invaso tutti gli spazi di rappresentazione della realtà, lasciando giocare al cinema un ruolo di sponda. Per cui tante cose non è più possibile farle ora. Poi il cinema italiano, in particolare, avendo goduto di una così grande fioritura nel dopoguerra con dei grandi maestri, risente ancor di più di questo distacco. Inoltre oggi la nostra è una nazione confusa, e non si capisce come questo paese potrebbe avere un cinema con una strada chiara e netta, proprio perché il cinema è lo specchio del paese…

Quale fra i grandi cineasti italiani del passato è stato influente per il suo stile? Non potrei parlare di una vera e propria influenza diretta nel mio cinema… Sicuramente mi piace Rossellini per certi versi, così come Pasolini per altri, sono stati molto importanti insieme a molti altri autori… Non potrei parlare di influenze ma sicuramente di grandi tracce.

Attualmente sta lavorando a qualche film o si sta concentrando più sul teatro? Sì, sto preparando un film che spero riesca a partire questa estate… Ci lavoro da tanti anni e, dopo numerosi rinvii e difficoltà, questa dovrebbe essere la volta buona. E’ ambientato nell’800, è un film storico con Lo Cascio, anche se è un film corale. E’ una storia di cospiratori nell’epoca dell’Italia risorgimentale e riguarda la nascita travagliata del nostro paese.

Martone, Patierno, Marra, Corsicato, Incerti: si può parlare di una “scuola napoletana”? No, no… Di Scuola Napoletana se ne parlava tempo fa, quando i registi facevano film ambientati a Napoli, quando le maestranze, il tecnici, gli organizzatori erano napoletani. C’è stata ad un certo punto questa ondata che però ora lavora a livello nazionale. Si può parlare più precisamente di “registi italiani nati a Napoli”. Penso a Sorrentino che gira il suo film su Andreotti, Capuana sta lavorando a Torino… Parlare ora di film napoletani sarebbe improprio…



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