Incontro con Aleksandr Sokurov

Sguardo profondo, sorriso gentile. Si accomoda ad un tavolo intorno al quale sono seduti pochi giornalisti. Alekandr Sokurov desidera che tutti si presentino: si crea subito un’atmosfera molto intima con il grande regista russo, che appare cortese e ben disposto a rispondere alle domande degli addetti stampa. L’ambizione della sua tetralogia, ovvero quella di descrivere personaggi che hanno rappresentato il totalitarismo nel ‘900, non tanto dal punto di vista storico quanto da quello umano, viene mascherata dalla sua umiltà. Più volte durante l’incontro l’autore parla delle difficoltà per quanto riguarda la lavorazione dei suoi film, la costruzione dei personaggi e su quanto sia difficile per lui riconoscere che, a film ultimato, non ha realizzato che il 60% di quello che avrebbe voluto. Consapevole ed orgoglioso di essere un artista, Sokurov paragona il suo cinema alla pittura (un po’ come Andrej Tarkovskij, su cui Sokurov ha realizzato uno splendido documentario, Elegia di Mosca). Per quanto riguarda la pittoricità dell’immagine cinematografica spiega il suo pensiero con un semplice sillogismo: se si gira a 25 fotogrammi al secondo, ed ogni fotogramma è un quadro, in un secondo ci sono 25 quadri diversi da dover ‘dipingere’ con incredibile minuziosità. In un film di due ore ci sono quindi milioni di fotogrammi, per cui quello della direzione della fotografia diventa un lavoro lungo e complesso (lo stesso regista si assume questo compito, poiché sostiene di non aver mai trovato nessuno che sia stato in grado di realizzare i ‘quadri’ che aveva in testa, né tantomeno qualcuno che volesse sacrificarsi a compiere un lavoro così imponente). Insiste molto sulla fotografia, ed anche quando si parla di Soy Cuba, recente gioiello recuperato, Sokurov cita e osanna il direttore della fotografia Sergei Urusevsky, sostenendo inoltre che quando in un film lavorano personaggi di tale calibro, il motivo politico che muove la pellicola, sparisce totalmente. Rimane l’Arte, quelle che Ejzenstejn non è riuscito a creare fino in fondo, perché i film come Sciopero o La corazzata Potemkin erano troppo viziati dal pensiero politico del regista sovietico. Inoltre l’autore di Moloch tiene a precisare che i fatti narrati nei film di Ejzenstejn non erano altro che la proiezione dei suoi ideali, non quello che realmente accadeva in quel periodo. Qui si rabbuia, guarda in alto e dice: “Quanti morti... quanta gente uccisa... è inimmaginabile...”, non mascherando in nessun modo il suo disprezzo verso l’ottusità di un regime che mandava al macello la sua stessa gente.
Al centro dell’interesse di Sokurov c’è sì la Storia, ma non intesa come ricerca delle implicazioni che hanno reso il nostro presente così come appare (come ad esempio lo scontro culturale tra ebrei e musulmani), poiché le ragioni storiche di ogni avvenimento sono da ricercare attraverso i secoli. La Storia che interessa il cineasta russo è quella fatta da quegli uomini che hanno avuto in mano il destino dei loro popoli: Hitler, Lenin, Hirohito. Sokurov dipinge il lato umano di questi personaggi poiché la sua attenzione si pone maggiormente verso le passioni, gli isterismi (o i tic nel caso dell’imperatore giapponese), e soprattutto gli errori, tipici dell’essere umano. “Gli uomini fanno la Storia e la Storia è un vicolo cieco”, questa è l’unica concezione che può avere un artista che si cimenta con eventi drammatici della Storia: non resta che comprendere l’uomo per comprenderne il senso.
Sokurov, a fine incontro, sorride di nuovo, stringe la mano ai giornalisti, firma qualche autografo e ringrazia tutti coloro che erano lì, in fondo, per ringraziare lui. Per i suoi capolavori. Per la sua genialità e raffinatezza culturale. E da oggi possiamo dire anche per il suo essersi dimostrato un personaggio umile e garbato. Come ogni grande artista.
