Incontro con Bernardo Bertolucci

Pesaro, 25 giugno 2011.
“In un certo senso, dovresti essere considerato tra i cofondatori della Mostra del Nuovo cinema di Pesaro”. Così esordisce Bruno Torri – “padre” insieme a Lino Miccicchè di questo evento cinematografico - rivolgendosi a Bernardo Bertolucci. La mostra nasce infatti nel 1965 per dare spazio e visibilità a quella che solo col senno di poi sarebbe stata riconosciuta come la Nouvelle Vague italiana, oltre che a tutte le nuove cinematografie internazionali, che hanno visto Bertolucci in prima fila tra i cineasti “rivoluzionari”.
“Ricordo in particolare il secondo anno del Festival – ricorda Bertolucci – in cui è nata la mia grande amicizia con Jack Nicholson, che era qui come attore di un film di Monte Hellman. Siamo diventati amici perché facevamo tutti e due la corte alla stessa ragazza, che non voleva né me né lui”. Rivalità e complicità amorose con Nicholson a parte, il grande regista italiano ricorda anche quei suoi primi passi nel mondo del cinema.
“La folgorazione la ebbi durante un viaggio a Parigi nel 1960, in cui vidi A Bout de Souffle e capii che tutto era cambiato. Ma c’era un disagio molto forte ad essere registi in Italia in quei primi anni Sessanta: Prima della Rivoluzione venne proiettato a Cannes (nel 1964) e il giorno dopo ne parlarono bene solo due giornalisti, di cui uno era Morandini che aveva fatto una parte nel film. Il mio lavoro venne talmente insultato dai critici italiani che passeggiando per la croisette fantasticavo di incontrarne qualcuno per prenderlo a pugni”.
“Io ho realizzato i miei primi film – continua Bertolucci – nel momento in cui il neorealismo stava diventando qualcosa di obsoleto. Secondo me si è poi trasformato nella Commedia all’Italiana, che credo sia molto più debitrice al neorealismo che non i miei film. All’epoca insomma da un lato c’era la Commedia all’Italiana, dall’altro gli Spaghetti Western e io non mi sentivo di accettare nessuno di questi due generi: non avevo accettato la regola del gioco di quel momento. Anche se il western mi attraeva molto di più”. E fu per questo che il regista di Novecento si trovò coinvolto nella scrittura della sceneggiatura di C’era una volta il West. “Un giorno a Roma sono andato a vedere Il buono, il brutto e il cattivo. Era il primo spettacolo del primo giorno, perchè io aspettavo molto più impazientemente i film di Leone che non quelli di Scola o Risi. Il giorno dopo ho ricevuto una chiamata: ‘Sono Sergio Leone. So che ieri eri alla proiezione, perché ti piacciono i miei film?’. Mi spiegò che mi aveva visto perché stava in cabina di proiezione a supervisionare tutto. Io gli risposi ‘amo i i tuoi film perchè mi piace come filmi il culo dei cavalli’.
‘Che cosa vuoi dire?’ Non aveva capito se doveva offendersi.
In genere all’epoca i cavalli nel western venivano visti di profilo, con le loro silhouette che si stagliavano contro l’orizzonte. Allora gli risposi: ‘solo tu e Ford quando si arriva davanti al saloon sostate sulle enormi chiappone dei cavalli’. E fu così che Sergio Leone mi disse ‘tu scriverai il mio film’, esperienza che per me fu molto importante”.
A intervistare Bertolucci c’è anche Adriano Aprà, amico di lunga data del regista, che gli chiede di raccontare il passaggio – avvenuto con Il Conformista (1970) – dal cinema puramente di sperimentazione linguistica e poetica alla conciliazione con i gusti del grande pubblico, pur senza rinunciare all’innovazione e alla ricerca formale. Il regista ricorda anche dei suoi primi incontri con Aprà: “quando avevo quindici anni ero a casa di Zavattini che gli mostravo i miei primi cortometraggi, e c’era anche Adriano. Zavattini non diceva nulla a proposito di ciò che gli mostravo, e mi faceva soffrire. Alla fine è stato proprio Adriano a parlare: ‘ci sono troppe inquadrature dal basso’. Per lungo tempo ho fatto film che io e Glauber Rocha chiamavamo miura, dal nome di una razza di tori che sono i più indomabili che esistano. I nostri film erano talmente indomabili che in sala, a parte i nostri parenti, non c’era neanche uno spettatore. A quei tempi pensavamo che se un film otteneva successo di pubblico avesse necessariamente al suo interno qualcosa di diabolico. Nel ’69 mi resi conto di cosa era ciò che Aprà chiamava il piacere del testo: io posso condividere il grande piacere che provo nel fare un film con quello che prova il pubblico nel guardare, senza che in mezzo ci siano delle fasi di prostituzione”. Con questa consapevolezza Bertolucci gira Il Conformista e Ultimo tango a Parigi (1972): “il feedback del pubblico divenne un’ondata internazionale. Ultimo tango a Parigi è uscito in tutti i paesi del mondo tranne la Spagna di Franco da cui partivano treni tutti i giorni per la più vicina cittadina francese dove si poteva vedere il film. Quel tipo di successo è molto invasivo e può diventare quasi una droga. Così dopo Ultimo tango – quando tutte le grandi Major americane volevano lavorare con me – ho deciso di realizzare un film con più elementi dialettici, che fosse un po’ destabilizzante. E’ così che ho pensato di far si che la Paramount, la United Artists e la 20th Century Fox pagassero per la più grande bandiera rossa mai vista al cinema. Per la parte di Olmo inizialmente volevo un attore sovietico, da abbinare a quello americano (Robert De Niro): con il senso di onnipotenza che mi derivava da Ultimo Tango stavo addirittura cercando di costruire un ponte tra Stati Uniti e Unione Sovietica. In realtà, il film fu un grande successo in Italia ma non uscì negli Stati Uniti, e così fallì la mia idea di esibire negli Usa questa bandiera rossa. C’era un problema di lunghezza eccessiva che la Paramount (lo Studio più di destra di tutti) sfruttò per non far uscire Novecento in America”.
Come ricorda Bruno Torri, un’altra caratteristica del cinema di Bertolucci è l’attenzione ai temi psicanalitici. “Mentre nel 69 cominciavamo a scrivere La strategia del ragno – ricorda ancora il regista - ho iniziato l’analisi. I primi giorni sono stati entusiasmanti: più che per l’effetto terapeutico per l’allargamento della visione che mi consentiva. Già ai tempi del Conformista dissi in un’intervista che nei titoli di testa avrei dovuto mettere il nome del mio analista, e questo spiega l’importanza che davo a quel processo. In quel periodo mi sembrava addirittura di elaborare molto di più i miei film nelle sedute di psicanalisi che in quelle di sceneggiatura. La visione che si acquista facendo analisi è stata fondamentale in tutto il mio lavoro, specialmente nell’approccio ai personaggi. Tra i nomi di fornitori di obiettivi del cinema bisognerebbe inserire anche il nome di Sigmund Freud, o Jung per gli junghiani (che però io non sono). Ora ho un obiettivo ancora ulteriore: il 3D, che vorrei utilizzare nel mio prossimo film (tratto dal romanzo di Niccolò Ammanniti, Io e Te ”.
Secondo Adriano Aprà, “con La luna – incentrato sulla figura materna – e La tragedia di un uomo ridicolo – figura del padre – è come se si concludesse il tuo rapporto con la psicanalisi, in quanto non parli più dei giovani ma del rapporto con le due grandi figure simboliche, padre e madre appunto”. “Quel momento – replica Bertolucci - chiude il periodo in cui la psicanalisi è presente più direttamente nei miei film. Anche perché poi sono andato in Cina e non potevo certo imporre Sigmund Freud ai cinesi. L’altra grande avventura della mia vita, dopo Novecento, è stata proprio L’ultimo imperatore. Era il 1984, e non giravo più nulla da quattro anni, anni in cui avevo coltivato dei progetti poi falliti. Ad esempio, avevo chiamato Ian McEwan, all’epoca ancora sconosciuto, per collaborare a una sceneggiatura tratta dall’ultimo libro di Moravia, 1934. Ci chiudemmo per un lungo mese invernale in una casa di Sabaudia, e io cercavo di spremere McEwan per portarlo sul versante della commedia, ed ora è facile capire che era tutto tempo perso. In seguito, mi trovai con la voglia di andare il più lontano possibile dall’Italia: erano anni in cui nel nostro paese stava bollendo a fuoco lento la sensazione di corruzione poi esplosa con Tangentopoli nel ’92, ma io lo avvertivo già dagli anni Ottanta, per cui andare in Cina fu una gioia. Lì incontrai giovani registi come Chen Kaige e Zhang Yimou, per cui cominciai a capire che c’era una Nouvelle Vague anche in Cina. Quando mi capita di incontrarli ancora oggi, loro mi dicono che per il cinema di quel paese L’ultimo imperatore ha rappresentato un momento di passaggio da una fase ad un’altra, che il film aveva abbattuto una barriera ”.
Questo cosmopolitismo della filmografia di Bertolucci, secondo Torri, “riflette un duplice percorso riscontrabile in tutto il cinema italiano: da un lato opere che parlano dell’Italia in tutti i suoi aspetti e una componente minoritaria di cineasti che fa film girati all’estero, ispirati a romanzi e avvenimenti stranieri”.
Il regista spiega le ragioni che l’hanno portato lontano dall’Italia ad un certo punto della sua carriera: “c’è stato un momento in cui ho avuto la sensazione che questo paese stesse diventando sempre più stretto di cose che mi piacevano, e ho cominciato a guardarmi intorno. Non c’è stato nessun piano per diventare cosmopolita, è accaduto. Che poi L’ultimo imperatore, film cinese, abbia avuto tutti quegli Oscar, è da un lato un caso dall’altro l’effetto della mia cinefilia. Quando giravo mi dicevo che Hollywood aveva dimenticato come si fanno i grandi epics, e io volevo ricordare loro che un tempo li sapevano fare ”.
Adriano Aprà aggiunge un’altra distinzione: quella tra “cineasti della realtà e cineasti dell’immagine. Nel primo caso la macchina da presa ha un rapporto naturale con le cose che guarda, nel secondo invece si sente che l’immagine non è la realtà. Il tuo cinema forse appartiene alla categoria dell’immagine, è inquadrato: attraverso l’obiettivo non si vede la realtà ma un’immagine mentale”.
“Mi fai venire in mente una sequenza del Conformista ” ,dice Bertolucci. “Quando Trintignant parla con il suo vecchio professore della caverna di Platone. Preparando la scena mi chiedevo di cosa potessero parlare, e leggendo testi di filosofia mi sembrò che la caverna di Platone fosse il primo caso di cinematografo”. Le ombre che il fuoco proietta sul muro di fronte ai prigionieri della caverna sarebbero quindi un cinema ante-litteram. Rappresentato nel capolavoro di Bertolucci - Il conformista - di cui la famosa sequenza del ballo è immortalata in un’immensa foto alle spalle del regista nel Teatro Sperimentale di Pesaro. "Mi commuove molto - chiosa Bertolucci - vedere questa bellissima foto del mio film qui a Pesaro".
A quello stesso Festival di cui, a quanto pare, il "Maestro" è cofondatore onorario.
