Incontro con Jonathan Demme
Roma, 10 novembre 2013. Il pubbllico dell’Auditorium incontra Jonathan Demme, regista americano indipendente ma anche autore di alcuni dei film più famosi e premiati di sempre, come Philadelphia e Il silenzio degli innocenti. A condurre l’incontro ci sono Mario Sesti e Giona Nazzaro.
Mario Sesti: Per lei come autore di cinema è più importante l’idea che comunica o trasmettere innanzitutto il piacere che si prova facendo un film?
Jonathan Demme: Ho pensato molto alla dimensione dello storytelling, e credo che l’aspetto più ineludibile di un film sia che se non si ha una buona storia, da raccontare bene, allora non si ha niente. Ma l’intera crew del film partecipa a questa narrazione: gli attori, i cameraman... I grandi attori – e penso ad esempio a Denzel Washington - si prendono la totale responsabilità per la loro performance, che è uno degli ingredienti principali della storia. Ma anche il cameraman è essenziale alla sua messa in scena. Credo che serva avere un tema da sviluppare, che è l’ancora del lavoro, mentre la storia è l’amore per il fare film.
Giona Nazzaro: Lei è uno dei registi più politicizzati del cinema americano, ma vorrei ricordare il suo grande maestro Roger Corman che dietro i suoi mostri di cartapesta covava un’idea politica del cinema eccezionale.
JD: Dato che amo il cinema così tanto, incontrare Corman è stata una di quelle occasioni che si presentano una sola volta nella vita. A quel tempo ero uno scrittore pubblicitario ed essendo un grande fan di Corman – avevo visto tutti i suoi film, che sono parecchi – gli portai qualcosa che avevo scritto per un lavoro da pubblicitario per lui. Lui lo lesse e mi chiese: “pensi che potresti scrivere una sceneggiatura?”. Qualcosa dentro di me mi fece dire di si, e mi misi a lavorare alla sceneggiatura insieme al mio amico Joe Viola. Qualche mese dopo incontrammo di nuovo Corman per portargliela, lui stava in un albergo a Londra e ci portò al bar, dove mentre noi bevevamo un caffè lui lesse quello che avevamo scritto. A lettura finita ci chiese subito se volevamo partire per Los Angeles di lì a poco per fare il film. E’ così che ho iniziato a lavorare per lui, che tanti anni dopo ha fatto un cammeo in un mio film: The Manchurian Candidate.
MS: Nel suo ultimo film, Fear of Falling, si è confrontato per la prima volta con il teatro trasposto sul grande schermo.
JD: Filmare il teatro è stata una delle esperienze più impegnative della mia vita. Fear of Falling è tratto da The Master Builder di Ibsen, a cui noi abbiamo aggiunto una svolta diversa rispetto al testo originale: l’abbiamo reso un film che celebra l’opera teatrale. In questo stesso lavoro ho applicato una delle cose che Corman mi ha insegnato: "quando giri in una casa scegline una con corridoi molto lunghi, perchè tutte le scene più terrificanti della storia del cinema hanno luogo in lunghi corridoi di fronte a delle porte chiuse".
GN: Dopo gli Oscar e i riconoscimenti da lei ricevuti è tornato al cinema indipendente. Come mai?
JD: Premetto che nel 2005 Scott Rudin mi chiamò per propormi di dirigere The Manchurian Candidate: il protagonista era Denzel Washington, che aveva voluto a tutti costi che io dirigessi il film. Un film per cui ho avuto a disposizione 85 milioni di dollari, quindi non proprio indipendente. Ma una chiamata del genere, da quel momento in poi, la sto ancora aspettando.
Quando si hanno per le mani tutti quei soldi comunque capisci che devi perlomeno fare un film che faccia andare in pari i tuoi investitori, e ad un certo punto mi sono ritrovato a pensare che non volevo quella responsabilità. Ma soprattutto mi sono chiesto se fosse giusto spendere quella quantità di soldi: in tante parti del mondo ce n’è un gran bisogno, è giusto spenderli in un film?
In fondo mi trovo sempre a gravitare intorno a forme di filmmaking indipendenti e “diverse”, come il Dogma ad esempio; o a innamorarmi nuovamente della Nouvelle Vague o del neorealismo.
In questo momento mi piace fare documentari e lavorare per la televisione: nel mondo della tv ora c’è una scrittura favolosa ed è bello lavorarci.
MS: Lei è anche un grande amante della musica, come influisce questa forma d’arte sulla messa in scena?
Musica e cinema si amano tantissimo. Il cinema è in grado di aggiungere un grado di vita alla musica, e la musica può trasformare una buona scena in qualcosa di meraviglioso. In Italia ho collaborato con Enzo Avitabile, che è uno dei miei compositori preferiti al mondo.
MS: E la sua relazione musicale con Neil Young come si è sviluppata?
Dipende dal fatto che la sua musica è incredibilmente cinematografica, è come un bravo attore: la macchina da presa lo ama e lui ama la macchina da presa. Infatti ora sta girando un documentario su una sua esperienza. Ha comprato una vecchia Lincoln degli anni ’50 perché è un grande appassionato di macchine, ma è anche un ambientalista e quel genere di auto consuma ed inquina tantissimo. Quindi sta cercando un modo di farla funzionare senza benzina e ha girato l’America per 5 anni consultandosi con ogni genere di esperti.
Ci può dire qualcosa di Zeitoun, il film che progetta di realizzare?
JD: Sono contento che venga ricordato questo mio progetto, perché mi è difficilissimo trovare dei finanziamenti. La storia infatti simpatizza con dei musulmani: è la vera vicenda di una coppia di arabi perseguitati dall’Homeland Security nel post 11 Settembre. Durante l’uragano Kathrina salvarono tantissime persone con una canoa, poi lui è stato imprigionato perché sembrava sospetto in quanto arabo ed è scomparso, risucchiato dal sistema penale. Infine è riuscito ad uscire grazie all’impegno della moglie, ed è stato dichiarato completamente innocente.