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INCONTRO CON RACHID BENHADJ E MARZIA TEDESCHI - ROMA, 14/05/2006

Pubblicato il 16 maggio 2006 da Matteo BotrugnoDaniele Coluccini


INCONTRO CON RACHID BENHADJ E MARZIA TEDESCHI - ROMA, 14/05/2006

In una ventosa domenica romana abbiamo incontrato Rachid Benhadj, regista che vive da molti anni in Italia ma la cui opera non è stata ancora sufficientemente approfondita, e Marzia Tedeschi, una delle protagoniste de Il pane nudo, l’ultimo lavoro dell’autore algerino. E’ stata una conversazione interessante in cui Benhadj ha parlato a lungo del film, ma anche di cinema italiano, di scontri-incontri fra diverse culture, di quanto si è disposti a mettere in gioco se stessi per l’arte. Marzia Tedeschi ci ha parlato con entusiasmo del suo esordio nel mondo del cinema e del forte scossone che ha ricevuto la sua carriera dopo aver interpretato Sallafa, donna combattuta tra tradizione e ribellione.
Proponiamo una summa del piacevole incontro, che comunque è possibile vedere in versione integrale scaricando gratuitamente il video a fondo pagina.

Iniziamo dalla genesi del suo ultimo lavoro, tratto dall’omonimo romanzo di Mohamed Chukri. Il libro è mai uscito nei paesi arabi? E il suo film ha contribuito a rendere più accessibile il pensiero dell’autore?

Rachid Benhadj: Il pane nudo era un libro di un giovane in rivolta contro la sua società. Lo vedo come un ‘vomito’, uno sguardo critico, valido sia per la società in cui viveva che per tutte le altre. Avendo vissuto una realtà dura, si è ‘vendicato’ scrivendo la sua autobiografia, la cui pubblicazione peraltro è tuttora vietata nei paesi arabi.

Il film è stato presentato anche in Egitto, in cui è stato accolto con calore...

R.B.: Non sono andato a Il Cairo, questo lo può raccontare Marzia.
Marzia Tedeschi: Dopo una prima mondiale ad Algeri, la città natale di Rachid, ed una a Casablanca, luogo in cui è nato Choukri, il film è stato presentato a Il Cairo Film Festival. Tra l’altro in Egitto il libro è ancora proibito e malgrado Il pane nudo fosse stato presentato fuori concorso, c’era molta attesa e molto fermento. Con mia sorpresa ho notato un’attenzione particolare nei nostri confronti, specialmente da parte delle donne, e posso dire che lì il film ha avuto un’accoglienza eccezionale.

Al tuo primo lungometraggio hai dovuto interpretare una parte molto complessa, come hai lavorato sul personaggio?

M.T.: Sono innamorata del personaggio di Sallafa. Ogni volta che mi rivedo sullo schermo in quel ruolo, provo ancora una forte emozione, malgrado abbia già visto il film molte volte. E’ come se avessi toccato il cuore di questa donna, vittima di tante violenze, tra cui il brutale taglio dei capelli.
R.B.: A suo modo era una donna libera e allo stesso tempo prigioniera.
M.T.: Si era creata un limbo in cui era padrona di vivere la propria ribellione.
R.B.: Ho parlato con Choukri una volta e l’ho fatto arrabbiare dicendogli che lasciando quella donna aveva perso la sua prima, vera storia d’amore. Diceva che non era vero, anche se dopo un paio di giorni ha dovuto ammettere che avevo ragione. Lui aveva paura di creare una famiglia, e che questa potesse essere come quella che aveva tanto dolorosamente influenzato la sua infanzia. L’immagine del marito diventa l’immagine del padre: Choukri è morto senza sposarsi per paura di ripeterne gli stessi errori.

Come è stato il suo rapporto con Choukri?

R.B.: Lui divideva il mondo in bianco e in nero. Quando mi sono messo a lavorare con lui eravamo come due animali, ho avuto la sua fiducia dopo un anno! Per trent’anni in molti hanno tentato di adattare il romanzo, ma alla fine Choukri arrivava sempre a bloccare il progetto, perché ha una tale personalità da mangiare l’altro... aveva un atteggiamento molto pasoliniano.

In un periodo in cui si vuole evitare di conoscere la cultura dell’altro, quanto persiste ancora nella nostra società quell’ignoranza tanto combattuta dal giovane Mohamed?

R.B.: Quando sono arrivato in Italia sono rimasto stupito di quanto voi non ci conosceste, eppure io sapevo molto della vostra cultura. Il dramma dell’Italia è questo: è la culla delle cultura eppure va a cercarsi delle sotto-culture, delle ‘culturette’. Mi ricordo che quando ero bambino il vostro cinema era per me come una seconda scuola. E’ un paese che purtroppo ha perso la sua identità e se si perde la propria identità automaticamente si ha paura dell’altro. Se non sei aperto all’altro ti chiudi e se ti chiudi e come se ti uccidessi da solo. Per ritornare alla scena della scrittura, ho voluto dare a quella sequenza una certa sacralità. Quando il ragazzo scopre la scrittura capisce di essere un animale pensante. Un mondo gli si apre davanti: per questo ho cercato di realizzare la cella come una caverna preistorica, in cui l’uomo prende consapevolezza della propria razionalità.

A proposito di ‘culturette’: il cinema italiano è in un momento critico, poche le uscite, mentre i film di nicchia vengono sempre più trascurati. L’esordio di Marzia avviene grazie ad un regista straniero. Cosa sta succedendo al cinema italiano?

M.T.: Rachid è forse più italiano degli altri! Autori come lui ci riportano a quello che siamo stati, e Rachid ce lo ha dimostrato. E’ la qualità che conta non la quantità. Per me è stata un’esperienza magnifica lavorare con lui. Speriamo che anche il pubblico possa cominciare ad apprezzare questo tipo di cinema che pur essendo di nicchia, sta già raccogliendo molti più consensi di quelli che avevamo previsto.
R.B.: Il cinema italiano deve ritornare a se stesso. Racconta te stesso, quello che ti trascini dentro dalla tua cultura, dalle tue tradizioni, e allo stesso tempo non smettere di aprirti verso gli altri! Il mio in fondo è un film italiano che tratta di problemi non solo legati al mondo arabo, ma collettivi.

Rachid, lei è un artista diviso tra culture diverse. In una scena di Touchia si vede qualcuno alzare uno striscione con su scritto: Abbasso la democrazia! Quale democrazia? Quella europea, quella propinataci dagli americani, o quella che si stava instaurando in quel periodo in Algeria?

R.B.: Ogni scena di Touchia rappresenta il rischio che ho corso. Mi chiedevo se valesse la pena di rischiare la mia vita per girare le immagini che avevo in testa. Questo per me è il significato di fare il regista: dare ad ogni immagine il valore della mia vita. Qui il regista non lavora di certo in queste condizioni, ma è pur vero che deve dare il peso giusto a quello che fa. L’arte è questa, non puoi essere bugiardo. In Touchia criticavo, in maniera civile, coloro che volevano impedire la mia libertà d’espressione. Ero lì a difendere la democrazia, a manifestare il mio essere contro ogni totalitarismo, perché io, come artista, devo mettere il mio lavoro a servizio di chi viene calpestato.

I suoi film hanno avuto problemi di distribuzione...

R.B.: Il mio primo film è stato sei mesi nelle sale a Parigi, ho ricevuto più di quaranta premi, e qui non è stato mai distribuito. Bisognerebbe fare in modo che il pubblico si abitui a vedere anche altri tipi di film, oltre a quelli più commerciali.

M.T.: Il pubblico può appassionarsi anche a questo tipo di storie. Sarebbe solo necessario abituarlo...


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