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Intervista a Iwai Shunji, regista di Vampire

Pubblicato il 17 febbraio 2011 da Giovanna Branca


Intervista a Iwai Shunji, regista di Vampire

Capita spesso che un autore – la parola più adatta per definire Iwai Shunji: regista, sceneggiatore, compositore delle musiche e fotografo di Vampire – abbia una visione poetica ricca e complessa, ma che sia molto limitato nel tradurla a parole. Nel caso del regista giapponese, l’impresa è resa ancora più ardua dal suo ostinato rifiuto a farsi aiutare dall’interprete, e da una timidezza ai limiti dell’autismo. Ciononostante, Iwai Shunji risponde cortesemente alle domande sul suo primo lavoro in lingua inglese, presentato alla Berlinale nella sezione Panorama.

Ha saputo che alla proiezione stampa del film uno spettatore è svenuto in sala? Non lo sapevo, mi dispiace moltissimo

Come si sente ad essere qui a Berlino? Sono molto contento, è la quinta volta che vengo invitato alla Berlinale; il mio primo approdo a questo Festival era legato ad un cortometraggio di quindici minuti. Ciò che però mi stranisce del pubblico europeo è che, rispetto a quello giapponese, è molto tranquillo, molto silenzioso. Però mi ha fatto piacere che nei momenti ironici del film molta gente abbia riso.

Come si è trovato a lavorare per la prima volta con attori di lingua inglese, con un cast internazionale? Non è stato difficile: io sono il regista, devo solo arrivare sul set e dire a tutti quello che voglio ottenere, cosa devono fare, compresi gli attori. In Giappone è molto più complesso, sui set regna sempre un caos terribile. Invece la troupe canadese era straordinariamente professionale e flessibile, dunque mi sono trovato molto bene.

La sua storia avrebbe potuto essere ambientata indifferentemente in Giappone e nel mondo occidentale o ha scelto il Canada per un motivo particolare? Vampire avrebbe dovuto essere girato cinque anni fa, l’idea esisteva già da tempo, ed è nata in Giappone come un film sugli aspiranti suicidi. Il problema è stato che coloro che dovevano investire nel film si sono tirati indietro a causa dei temi trattati, perché temevano che una storia del genere non sarebbe stata ben accetta nella società Giapponese, dove si è molto sensibili al tema del suicidio e magari i familiari delle “vittime” avrebbero potuto avanzare delle critiche. Poi due anni fa ho avuto l’idea del “vampiro” vero e proprio, e l’ho mischiata al progetto precedente, decidendo di girare all’estero. Ma mi sarebbe piaciuto girarlo anche in Cina o in Europa: non contava veramente il dove. In generale però girare all’estero è meglio, ci sono molti più stimoli; in Giappone quando ero giovane era veramente difficile fare un film: è un posto troppo sicuro, troppo ordinato, per niente stimolante per un regista.

I suoi personaggi sono tutti molto solitari e hanno difficoltà a entrare in relazione con altri esseri umani, come mai? Ho sempre avuto un senso di isolamento nella mia vita, specialmente quando ero un bambino: le maestre mi maltrattavano e gli altri bambini mi ignoravano. Ma amo ricordare quei momenti, perché sono stati cruciali e si sono concentrati nei miei film: l’importanza di imparare come sopravvivere.

E’ un appassionato di film di vampiri? Da piccolo li adoravo, anche se mi facevano molta paura. Quando ne davano uno in TV non riuscivo a smettere di guardarlo anche se ero terrorizzato e sapevo che avrei avuto incubi per almeno un mese. Quando ero all’università ho fatto un vero film di vampiri, in cui citavo in particolar modo sia il Nosferatu di Murnau che il remake di Herzog, che sono i più bei film sui vampiri in assoluto.

C’è qualche regista europeo che ama particolarmente? Bunuel e Visconti, che ho studiato all’università. In particolare Morte a Venezia. E mi piace molto anche Novecento di Bertolucci.


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