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Intervista Daniele Gaglianone

Pubblicato il 7 febbraio 2012 da Edoardo Zaccagnini


Intervista Daniele Gaglianone

Daniele Gaglianone è uno tra gli autori più coerenti del cinema italiano contemporaneo. Il suo Ruggine, presentato a Venezia 2011 nella sezione “Giornate degli autori”, è un film duro e perfettamente in linea con la poetica del regista, che ha accettato di parlare con noi di questo film e del suo cinema in generale. Siamo partiti dal libro omonimo di Stefano Massaron, da cui Ruggine è tratto, e abbiamo chiesto a Daniele cosa del testo lo avesse colpito.

Leggendolo, ho provato una forte empatia con i personaggi e con l’atmosfera del libro, perché anch’io, come i bambini raccontati, mi sono trasferito da piccolo nella periferia torinese. Non un quartiere così isolato come quello del libro e del film, ma comunque un microcosmo dove i bambini parlavano con accento non piemontese, visto che nessuno di loro era nato a Torino. Riconoscevo nel libro quel modo di stare insieme, il rapporto con le ragazzine, le bande, il fatto di giocare in una terra di nessuno. Crescere in periferia vuol dire vivere in un posto che è continuamente condannato a sparire, perché il confine si sposta sempre più avanti.

L’ambientazione, dicevi, e i personaggi...

Soprattutto quello del Dott. Boldrini, per quello che rappresentava nella vita di questi bambini che trent’anni dopo si portano ancora dietro la vita di questo fantasma. Credo che quel personaggio rappresenti, anche nel suo aspetto iperbolico, il male e il potere.

Che differenza c’è nel personaggio tra il libro e il film?

Nel libro è immediatamente connotato come l’orco delle favole. Nel film, anche se non volevo creare false piste, e volevo mostrarlo da subito in modo molto inquietante, come una persona capace di cambiare in peggio la vita di chi incontra, volevo avvicinarmi lentamente a lui, creando tensione. Ci vuole un quarto d’ora per vedere un primo piano di Boldrini.

Come avete costruito il personaggio, anche con Timi?

Con Filippo ci siamo trovati molto in sintonia con una visione del personaggio come corpo, innanzitutto. Abbiamo considerato una forbice ampia, un doppio registro, un forte contrasto tra una dimensione molto implosiva (ci sono momenti in cui Boldrini non si muove neanche, in cui ha dei movimenti molto solenni e ieratici) ed una dimensione esplosiva, iperbolica, sopra le righe. In ogni caso ho cercato di costruire il personaggio eliminando ogni discorso sul fascino del male. Anche quando Boldrini cerca di essere sublime, è sempre agghiacciante.

Mi dicevi di un film sul potere..

C’è una riflessione sul potere legata al personaggio del dottore e al suo doppio registro. Il potere si presenta spesso in modo grottesco e nello stesso tempo inquietante. I bambini riescono a vederlo meglio degli adulti. C’è una scena molto significativa in cui si vedono i bambini osservare da lontano Boldrini mentre fa il suo soliloquio. Lo percepiscono in modo clownesco, vedono il lato grottesco del male. Poco dopo c’è il ribaltamento di questa situazione, lo stesso momento visto dalla parte opposta, con lui che recita in un modo completamente diverso questa sorta di manifesto sul tramonto dell’occidente e sulla cura necessaria per non farlo tramontare. Lì esprime tutta la sua arroganza solitaria e folle. Mentre montavo quella scena mi sono reso conto da dove arrivasse il mio dott. Boldrini, vestito in quel modo. Ho pensato che quarant’anni prima stesse nella villa di Salò. Ho pensato a Paolo Bonacelli nel film di Pasolini, ed anche la scena in cui il dottore guarda dal binocolo le bambine di sotto (dopo che me lo hanno fatto notare) potrebbe arrivare da lì. Boldrini è un pedofilo, ma della sua pedofilia mi interessava il fatto che fosse la forma più suprema di male, la cosa peggiore che possa capitare a un bambino.

Come in altri tuoi film ricorri alla mescolanza dei piani narrativi, con il passato e il presente che si alternano..

Questo c’è in tutti i miei film, compreso Pietro, dove apparentemente il gioco è molto meno marcato. Però, quando il protagonista racconta la sua vita, siamo portati a immaginare il suo passato, perché Pietro è il risultato di tutto il suo vissuto. Io credo che questo sia uno dei temi di Ruggine, perché gli adulti del film fanno i conti, seppur con consapevolezze differenti, con quanto gli è accaduto molto prima. Siamo in grado di addomesticare il nostro passato? Quanto possiamo controllarlo? Quanto ne siamo padroni? Secondo me, dei tre adulti del film, quello che ha più interiorizzato la vicenda è il personaggio di Stefano Accorsi. Su di lui la gente si divide, ma io credo che sia il personaggio più rischioso e più importante del film, perché mentre gli altri affrontano il fantasma in modo consapevole, lui non ci pensa, e solo grazie alla mediazione ludica che sperimenta con il figlio, arriva ad un rapporto diretto col suo passato.

La violenza nel film è tenuta sistematicamente fuori dall’inquadratura. Come mai?

Le pagine più interessanti del libro sono quelle in cui Boldrini parla in prima persona. Pagine intollerabili ma letterariamente bellissime. Nella trasposizione cinematografica, però, erano irrappresentabili. Sia per il rischio altissimo di diventare morbosi, sia per un discorso di delicatezza e di rispetto per la morte, sia per un discorso di etica dello sguardo, per una questione politica in senso lato. Se io avessi mostrato fino in fondo cosa fa Boldrini alle bambine, lo spettatore si sarebbe sentito deresponsabilizzato, perché avrebbe visto un’immagine, avrebbe potuto dire non sono io che l’ho creata, è il regista che l’ha girata. Io mi sono fermato molto prima, lasciando intuire cosa accade. E a quel punto è lo spettatore che deve completare il quadro. Questo lo induce ad entrare di più nel film, in modo non rassicurante, a prendersi le sue responsabilità. Il fatto che il film ti costringa a creare il male e a completarlo, secondo me ti costringe anche a riflettere sul fatto che quando abbiamo di fronte certi personaggi, la prima cosa che tutti fanno, è escludere questa persona dal concerto degli esseri umani. E’ un mostro che arriva da Marte, pensiamo, quando il problema, invece, è che questi non vengono da Marte. Se vogliamo capire e fare i conti con queste cose, dobbiamo guardarle in faccia, dobbiamo riconoscerle, prenderci le nostre responsabilità. Dobbiamo capire che se c’è stato il nazismo è perché l’uomo può essere nazista.

Nei i tuoi film c’è un paesaggio molto connotato ma mai perfettamente definito...

Apparentemente questo può sembrare contraddittorio, ma in realtà non lo è. C’è una forte caratterizzazione dei luoghi, hanno un rapporto fortissimo con le storie che racconto, ma non dandogli una precisa connotazione diventano più universali, rendono il film sospeso e secondo me più affascinante. Il bosco de I nostri anni è un bosco dove dei partigiani diventano i partigiani, dove quei morti diventano i morti.

Sembra esserci un legame tra l’invisibilità di Pietro e quella dei bambini di Ruggine, tanto che una frase dice “se lo diciamo ai grandi non ci credono”. Sembra che il tuo cinema voglia illuminare quelle zone lasciate in ombra dalla nostra società, quelle persone o quelle cose più esposte e a rischio, facilmente attaccabili dal male: che sia la memoria che rischia di andare perduta ne I nostri anni, che siano giovani vite a rischio per colpa di altre, Nemmeno il destino, che sia il presente di persone adulte lasciate già sole da tempo, per non parlare di una delle risorse più importanti che abbiamo: i nostri figli, il nostro futuro. Ti sembra un filo rosso accettabile per il tuo cinema?

E’ una lettura in cui mi riconosco. I vecchi partigiani de I nostri anni, i ragazzi di Nemmeno il destino, Pietro, questi bambini, sono tutti un po’ dei reduci, persone che hanno vissuto esperienze dolorose come poche altre. E’ un cinema che parla di disadattati, conclamati o potenziali. Di gente che non è in armonia e in sintonia con ciò che sembra essere il verbo del momento.

E’ stato facile scegliere gli attori, o hai meditato a lungo prima di puntare su volti così popolari? E uvolta sul set, magari anche per la presenza di attori esperti, la sceneggiatura ha subito delle variazioni? Oppure sei un regista che arriva a girare con una sceneggiatura blindata?

Per me la sceneggiatura è da una parte una bussola che mi indica una direzione, e dall’altra è una superficie su cui ti muovi. E più questa superficie ti dà sicurezza, meglio è. Meno è una superficie scivolosa, con le buche, e più puoi permetterti di fare salti, di muoverti in libertà. Tutto ciò che nasce sul set, avviene perché si parte da una base solida. Con questi attori famosi io mi sono comportato come di solito mi comporto con tutti. Loro sono stati tutti molto disponibili, ed hanno capito che non li avevo chiamati per entrare nel mondo che loro evocano, ma perché loro, con la loro sensibilità e con il loro corpo, entrassero nel mio.

In che modo avete lavorato..

Verticalmente, discutendo molto, confrontando le buone idee. Alcune cose sono uscite fuori così, ad esempio, quando nel bar i due tipi umiliano il personaggio di Mastandrea, io pensavo che lui tentasse in modo maldestro di colpirli. Invece Valerio mi ha suggerito di abbracciarli, ed è stata un’ottima idea, giustissima. C’è stato scambio continuo tra tutti noi.

Come è stato lavorare con i bambini?

Un’esperienza bellissima, anche se dura e faticosa. Con loro ho lavorato in maniera molto leale, anche rischiando qualcosa, nel senso che non ho voluto nascondergli nulla. Gli ho spiegato il necessario con molta attenzione e rispetto. E questo fatto credo che li abbia fatti sentire più coinvolti. Ruggine è un film sull’infanzia e sulla sua fine, su quel momento in cui i bambini scoprono la loro fragilità e scatta la maturazione, la crescita.

Come avete lavorato con Gherardo Gossi, il direttore della fotografia?

Tra me e Gherardo c’è un grande rapporto, abbiamo bisogno di parlare pochissimo, ci capiamo al volo. Abbiamo lavorato sul passato pensando ad un colore che richiamasse gli anni del film, e abbiamo creato due situazioni molto lontane: il calore del passato col giallo, con l’ocra dell’estate, e il presente con un blu più freddo. Nel presente il giallo si ritrova solo nelle luci artificiali.

Da regista indipendente hai sempre lavorato in grande libertà, pagandone anche un prezzo. Ecco, in questo ultimo film, sei stato un po’ meno indipendente, oppure hai goduto della stessa libertà che ti ha permesso di costruire tre film molto belli?

Ogni film è diverso, ma è sempre un tuo film. Io penso che se uno mette in fila tutti i miei lavori, già dai cortometraggi, trova un legame anche molto forte. Un film resta nel tempo, è il risultato di un atto creativo ed è qualcosa che accade nel sistema. E’ chiaro che da questo punto di vista, con questo cast il film ha avuto una attenzione che non avevo mai avuto prima. Però il film in sé, trascende tutte le questioni legate a fatti commerciali, perché è totalmente in linea col mio modo di fare le cose e di percepirle.


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