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Isabella - Berlino 2020

Pubblicato il 29 febbraio 2020 da Francesca Pistocchi

VOTO:

Isabella - Berlino 2020

Due attrici, una più giovane e inesperta, l’altra più adulta e apparentemente consapevole: il nuovo film di Matías Piñeiro (già conosciuto per A propósito de Buenos Aires, 2006 e per Viola, 2014) è la sua personalissima versione di un Eva contro Eva in cui le relazioni personali non vengono mai esplicitate, ma rimangono sottese e si disperdono all’interno di un’intelaiatura frammentata ricostruibile attraverso i propri dettagli estetici. Mariel e Luciana non sembrano avere niente in comune, al di fuori di un obbiettivo: recitare la parte di Isabella nella ben nota pièce di Shakespeare, Misura per misura. E il film stesso procede a tentoni, ricostruendo l’amore incondizionato che lega Mariel alla sua professione e soffermandosi sulla dolorosa indifferenza di Luciana, ragazza talentuosa ma volubile. Il racconto abbraccia un lasso di tempo indefinito fra i due o i tre anni, sottolineando le incongruenze e le ambiguità del rapporto fra le due donne, ma anche della relazione che intercorre fra la maschera teatrale e la vita di chi la indossa. La pellicola gioca con il testo shakespeariano non soltanto nel continuo passaggio fra commedia e tragedia, ma soprattutto nei nodi che allacciano l’imperturbabile testardaggine di Mariel a quella di Isabella e la malcelata sfacciataggine di Luciana a quella di Angelo.

Esistenza e dramma s’intersecano fra loro, generando innumerevoli quadri al cui interno i personaggi vagano senza seguire una meta precisa ma ripetendo sempre le stesse frasi – una in particolare: «If he had been as you and you as he, you would have slipt like him; but he, like you, would not have been so stern» (ovvero: «Se fosse stato lui al vostro posto e voi al suo, sareste voi del pari caduto nello stesso suo peccato; solamente che, lui, nei vostri panni, non sarebbe con voi stato sì crudo»). Questa sorta di sentenza viene pronunciata con cadenza quasi ossessiva, trasformandosi rapidamente in gioco e poi nuovamente in verdetto, per svuotarsi definitivamente al termine della pellicola. Le parole perdono e acquistano il proprio significato solo se pronunciate sul palcoscenico, poco importa che quest’ultimo si trovi all’interno o all’esterno di un teatro. Motivo ricorrente è quello delle pietre, oggetti che le due attrici utilizzano per esercitarsi e che Mariel deciderà di inserire, in svariate tinte, nella sua personalissima pièce: per Piñeiro la recitazione è un’arte solida e malleabile che ognuno dipinge a suo modo. È infatti anche l’utilizzo schietto e quasi viscerale del colore a contraddistinguere la visione durante tutto l’arco narrativo: il viola e le sue sfumature – che, per un breve istante, virano addirittura in un rosso sanguigno – accompagnano lo spettatore dall’inizio alla fine del lungometraggio, guidando il suo occhio di cornice in cornice.

Particolarmente suggestiva è la scena in cui Mariel, quasi senza accorgersene, attraversa i diversi pannelli della sua scenografia: un espediente con cui il regista mette in evidenza la mutabilità dell’esistenza umana e della sua imitazione. Gli avvenimenti si susseguono a singhiozzo e in maniera sapientemente disarticolata, l’impressione che ne deriva è quella di assistere ad un’eterna replica: Mariel lavora alla sua pièce, Mariel fa il provino, Mariel e Luciana si conoscono, Mariel lavora alla sua pièce, Luciana fa il provino, Mariel e Luciana si conoscono, Mariel e Luciana si separano, Mariel fa il provino, Mariel lavora alla sua pièce, Mariel e Luciana si ritrovano, Mariel lavora alla sua pièce. Piñeiro crea un meccanismo perfettamente congegnato per far perdere allo spettatore qualsiasi punto di riferimento, disorientandolo e talvolta sconcertandolo attraverso la maniacale reiterazione delle stesse frasi. Ogni termine, ogni voce viene affrancata dal proprio contesto originario e reinserita in quadri inaspettati, riorganizzando l’immagine d’insieme così come Mariel riordina morbosamente le tinte e le sfumature che andranno a comporre la propria opera teatrale.

Le riprese sono durate quattro anni – più o meno l’intervallo di tempo in cui si muove la pellicola – e il risultato è un’architettura estremamente complessa, involuta, in cui personaggi e persone si scambiano la maschera fino a smarrire la propria identità.
Isabella è una dichiarazione d’amore per il cinema, per la recitazione e per la vita stessa che con la recitazione continuamente si mescola: il film vorrebbe aprire lo sguardo di chi osserva riflettendo sulla parola e inoltrandosi sulle forme e i toni che essa riceve nel momento in cui viene pronunciata.


CAST & CREDITS

(Isabella); Regia: Matías Piñeiro; sceneggiatura: Matías Piñeiro; fotografia: Fernando Lockett; montaggio: Sebastián Schjaer; interpreti: María Villar (Mariel), Agustina Muñoz (Luciana), Pablo Sigal (Miguel), Gabi Saidon (Sol); produzione: Melanie Schapiro, Le Fresnoy - Studio national des arts contemporains, Tourcoing origine: Argentina / Francia 2020; durata: 80’


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