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Jauja

Pubblicato il 25 maggio 2014 da Marco Grosoli


Jauja

I sei anni passati dal penultimo Liverpool non sono stati sprecati. Coronamento di una riconoscibilissima estetica affinata nelle prime quattro pellicole, Jauja è anche un rilancio della stessa su un piano che si può ben definire metafisico.
Viggo Mortensen interpreta un colono danese nell’Argentina di un presumibile Ottocento, accompagnato dalla figlia. Quest’ultima fugge con un ragazzo, e il padre attraversa innumerevoli lande desertiche alla sua ricerca – incrociando, fra l’altro, gli scempi compiuti da un simil-Kurtz, un brillante ufficiale che dopo essere impazzito va in giro a cavallo camuffato da indigeno. Il racconto si fa sempre più astratto; luoghi diversi, tempi diversi si confondono, senza che il protagonista riesca mai a portare a termine la sua ricerca. “Jauja” (ci dice il cartello iniziale) era appunto una terra mitologica dell’abbondanza e della felicità, che in un remoto passato fu oggetto di molte spedizioni esplorative – nessuna delle quali andò mai a buon fine.
Sostanzialmente, il film di Alonso è il trionfo del mezzo sul fine: la cara vecchia “messa in scena” la vince (ampiamente) sulla chiusura narrativa. L’enfasi è da un lato sulla miracolosa monumentalità del rapporto grafico tra figure umane e ambiente (stupefacente la fotografia del kaurismakiano Timo Salminen, coi suoi freddi azzurri, verdi, gialli), e dall’altra sulla dissezione analitica dei movimenti dei personaggi. Le loro traiettorie formano accurati arabeschi sul terreno, contemplati scrupolosamente da una cinepresa spesso fissa.
Le parole che accompagnano questa “coreografia” sono poche. Il loro frequente non-so-che di aulico viene dal co-sceneggiatore e poeta Fabian Casas e contribuisce, insieme alla crescente irrealtà delle situazioni mostrate, a virare Jauja verso la raffinata lamentazione esistenziale sull’irraggiungibilità di una soddisfazione che pure è infinitamente vicina, proprio qui accanto.
Gran parte del lungometraggio vede i personaggi camminare, camminare, e non arrivare da nessuna parte. Il deserto vince tutto, livella tutti gli spazi ma anche i tempi: ed è confondendo i tempi che ogni ipotesi di nichilismo viene sottilmente destituita. Il deserto è così vasto e sconfinato che ogni stacco di montaggio appare al contempo il risultato di una logica visiva ferrea, e completamente arbitrario. E in effetti, Jauja torna alle basi, all’abc griffithiano del cinema: azione, movimento, ambientazione, montaggio. Ma lo fa ricordandoci ciò che nei decenni si è troppo spesso dimenticato: ogni elucubrazione modernista sulla vanità dei progetti umani è già in partenza inglobata nel semplicissimo spazializzare il tempo (il movimento). Jauja, insomma, ci ricorda che Beckett è già tutto dentro Griffith.


CAST & CREDITS

(Jauja); Regia: Lisandro Alonso; sceneggiatura: Fabian Casas, Lisandro Alonso; fotografia: Timo Salminen; montaggio: Gonzalo del Val, Natalia López; musica: Viggo Mortensen; interpreti: Viggo Mortensen e Ghita Nørby; produzione: Ilse Hughan, Andy Kleinman, Viggo Mortensen, Sylvie Pialat, Jaime Romandia, Helle Ulsteen; origine: Danimarca, USA, Argentina, 2014


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