Roma 2015 - Junun
Il Cinema è solo, almeno per chi scrive, una questione di sguardo. Della cosiddetta "trama" ha importanza solo il modo in cui il regista ce la racconta. Sguardo che, come in un documentario, si fa esso stesso trama del racconto per immagini. Nel caso di un film che documenti la nascita di una performance musicale, la questione dello sguardo si fa ancora più interessante, perché se d’abitudine è il cinema a imprimere, con il montaggio, ritmo e passo alla narrazione di eventi messi in scena secondo le indicazioni del regista, nel filmare gente che suona o che canta, da sola o in gruppo, lo sguardo deve umilmente assecondare la trama della musica, i gesti e i volti di chi la suona.
Quando a guardare è, poi, uno dei massimi registi contemporanei, i cui film aprono e allargano nuovi e più audaci orizzonti dello sguardo, può nascere un’assoluta perla come questo Junun, che senza mai dimenticarsi di "star guardando", utilizza tutti i possibili mezzi a disposizione per registrare, eternare e conservare questo sguardo (telecamere su cavalletto, a mano, o montate su steadycam, macchine fotografiche, webcam, GoPro, droni…), posato sul fiorire naturale della musica. Posizionato vicino ai musicisti, come se fosse parte integrante dell’ensemble, lo sguardo di Paul Thomas Anderson si inserisce nella tessitura stessa della partitura musicale come uno strumento in più, non certo per produrre musica, ma per registrarne il flusso, accompagnandone l’ascolto puntandosi sapientemente a catturare lo sforzo di un solista, ma anche il suo piacere di suonare insieme al gruppo, l’emozione di ascoltarsi come parte di un tutto che risuona di bellezza e amicizia, e che testimonia la fusione delle diverse radici culturali e musicali degli esecutori.
Il risultato è tuttavia lontanissimo - fortunatamente - da una videoripresa professionale autoriale e di qualità superiore dell’incursione indiana di colui che gli ha musicato gli ultimi tre film, il compositore e chitarrista dei Radiohead, Jonny Greenwood, insieme all’israeliano Shye Ben Tzur e a una dozzina di musicisti indiani impegnati nell’incisione di un album nella fortezza di Jodhpur; volutamente, anzi, Anderson non tenta neppure di sovrapporre il proprio cinema alle performance degli artisti, e per inseguire il discorso musicale nel suo dipanarsi non si preoccupa, lui, tra i più rigorosi autori cinematografici contemporanei, di avanzare con panoramiche imperfette, a scatti, né di sottomettersi alla schiavitù della messa a fuoco o di un montaggio in sincrono con i ritmi e le melodie dei brani eseguiti. Sa di non avere alcun obbligo verso i musicisti, sa di poterli abbandonare al loro contrappunto e di essere libero di volare fuori dalla sala di registrazione, sedotto dalla perdizione del magico paesaggio indiano, di innamorarsi dei volti di uomini, donne e ragazzini, dei colori, degli odori delle strade cittadine, e di invidiare il volo affastellato di decine di uccelli neri come biscrome impazzite nel vasto pentagramma del cielo del Rajasthan.
Sa tutto questo, perché sa che cosa è il Cinema: la libertà, assoluta e vorace, di poter guardare.
(Junun); Regia: Paul Thomas Anderson; interpreti: Jonny, Greenwood, Shye Ben Tzur, Nigel Godrich; origine: USA, 2015; durata: 54’