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Roma 2015 - Legend

Pubblicato il 26 ottobre 2015 da Stefano Colagiovanni

VOTO:

Roma 2015 - Legend

“Nella vita, spesso, per riuscire a raggiungere la vetta, dobbiamo sacrificare una piccola parte di noi stessi, per quanto doloroso possa essere”. Dietro questa dichiarazione nuda e cruda, rivolta da Ron Kray a sua cognata Frances, in procinto di lasciare il marito Reggie, è racchiuso il cuore di Legend: per quanto intraprendenti e ambiziosi crediamo di essere, in un lasso di tempo corrispondente a quello della nostra vita, non saremo mai in grado di riuscire ad avere tutto, così come dobbiamo accontentarci di accettare la nostra vera natura, imparando (se non a proprie spese) che chi troppo vuole, nulla stringe. E finisce col perdere anche quel poco che gli rimane.

Dietro la robusta operazione Legend ritroviamo una vecchia conoscenza del crime-story d’autore, quel Brian Helgeland già vincitore di due premi Oscar (uno per L.A. Confidential, tratto dall’omonimo romanzo capolavoro dello scrittore maledetto James Ellroy, l’altro per lo straripante Mystic River), nonché uno dei più richiesti attori del momento, Tom Hardy, innegabilmente in un incantevole stato di grazia. La storia è risaputa e riguarda la vita dei due fratelli gangster Reggie e Ronnie Kray, padroni indiscussi della Londra degli anni Sessanta: ripercorrendo un arco temporale relativamente breve, Helgeland ci mostra la ricongiunzione dei due fratelli (prima di divenire uno dei signori del crimine di Londra, Ron era stato rinchiuso in un manicomio penitenziale, finché il fratello Reggie riesce a farlo dimettere senza conseguenze legali), l’ascesa ai piani alti del potere (solo in parte), per lasciare molto spazio all’analisi del vero nodo gordiano, ovvero il rapporto tra i due, posto in relazione con l’amore di Reggie nei confronti della dolce Frances (interpretata con sguardo innocente e malinconico da Emily Browning).

Inutile provare a negare o far finta di non accorgersi del fondamentale apporto di Tom Hardy alla pellicola: già acclamato a seguito del più che pregevole “one man show” in Locke di Steve Knight, stavolta l’attore ultimamente ammirato nel trionfale Mad Max: Fury Road del redivivo George Miller, vende letteralmente anima e corpo al diavolo, sdoppiandosi come per magia, per vestire i panni di entrambi i fratelli del crimine londinese; cinico e un po’ romantico in quelli di Reggie, folle e sregolato come Ronnie. Impeccabile su entrambi i fronti.

Una volta superata la carica emotiva sprigionata dalle prodezze artistiche di Hardy, si passa ad analizzare il contesto, la cornice narrativa nella quale i due fratelli Kray delinquono, si azzuffano e finiscono col perdersi l’uno l’altro: Helgeland accusa la narcisistica e falsa condizione dell’alta borghesia e dell’aristocrazia inglese, senza risparmiare il governo e i suoi funzionari, risaltando il contrasto sociale tra la popolazione povera dell’East End londinese. Così la malavita si compone e spezzetta in fazioni rivali, in un alternarsi di sconti e alleanze, spinte fino oltre oceano (interagisce con i fratelli Kray perfino il famoso gangster “americano” Meyer Lanksy). Ma ciò a cui Helgeland punta è la ricostruzione del rapporto di amore/odio tra i due fratelli, legati da un vincolo di sangue apparentemente indissolubile: a spezzare l’armonia ci pensa l’amore, folle sentimento che rapisce e destabilizza ogni certezza, costringendo l’uomo infallibile a rivoltare come un calzino la propria anima. Purtroppo non sempre si riesce a zittire quella tediosa pulce nell’orecchio che non perde tempo e occasione per ricordarci, sibilando, chi siamo in realtà: la morale è che nessuno può sfuggire a se stesso, mentre tutto ciò che ci resta da fare è percorrere il gelido viale dei ricordi, per poi tornare a fissare il demone negli occhi, preparandosi ad affrontare le conseguenze (nel più specifico caso dei fratelli Kray) delle nostre sciagurate esistenze.

E’ un affresco a tinte fosche, questo Legend che, tuttavia, viene lasciato ad asciugare, privo della completezza necessaria a tramutarlo in una straordinaria opera d’arte, alla quale avrebbero contribuito un paio di pennellate di rifinitura. Con ogni probabilità, il maggior difetto della pellicola di Helgeland combacia con la totale assenza di una partizione investigativa, che lascia in eredità un buco sostanziale di non poco conto, perché sta bene l’approccio personale grazie al quale la regia fissa il proprio punto di vista, ma in qui mancano l’azione barbara (per il crimine) e metodica/intellettuale (per il comparto investigativo) care proprio al genere gangster (una scelta che non permette, tra l’altro, di sfruttare la maturità artistica di Christopher Ecclestone).

Non siamo di fronte all’ennesimo tentativo andato in malora di emulare la magnificenza lirica di Nemico pubblico di Michael Mann, ma sembra inopportuno eccedere con gli applausi a scena aperta. Accontentiamoci.


CAST & CREDITS

(Legend); Regia: Brian Helgeland; sceneggiatura: Brian Helgeland; fotografia: Dick Pope BSC; montaggio: Peter McNulty; musica: Carter Burwell; interpreti: Tom Hardy, Emily Browning, Christopher Eccleston, David Twelis, Chazz Palminteri; produzione: Working Title; origine: U.S.A., 2015; durata: 131’; Proposta di voto: 3


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