Kiss of the damned
I vampiri incontrano Mr Hide: potrebbe essere questo il sottotitolo dell’interessante, anche se non sempre davvero riuscito, Kiss of the damned di Xan Cassavates.
Il tema del doppio si infiltra, infatti, nel tessuto del racconto vampirico per veicolare una riflessione a tratti molto pregnante sul rapporto civiltà/istinto che è uno dei cardini e degli snodi più importanti dell’horror politico americano degli anni ottanta. Snodo che rischiava di passare in secondo o anche terzo piano dopo l’uscita di film manifesto del disimpegno e del rifugio nel privato di opere come Twilight.
Al centro del racconto una società di vampiri che ha, da tempo, deciso di abbandonare la sua natura istintuale di cacciatori di giugulari umane per ritagliarsi uno spazio sociale di convivenza col genere umano. L’istinto predatorio viene così relegato alle ore più scure della notte, nei boschi a caccia di animali da seppellire in fretta una volta consumato il fiero pasto.
Con pochi tratti di penna Cassavetes mette al centro del suo discorso un mare di rimozioni. Il tessuto sociale dei vampiri, che di notte si riuniscono a suonare Chopin e a discorrere di filosofia in feste dal sapore vagamente aristocratico (in perfetta osservanza delle origini mitiche e vittoriane del mostro), costituisce una sorta di Super Ego sociale che detta le regole ai pochi nuovi adepti dell’ordine. Si tratta di norme non scritte, ma imprescindibili, precise, razionali e capaci di ammantare con un velo di educazione ogni deriva istintuale che il singolo non può non viversi come vertigine e tentazione.
La caccia notturna, tollerata come male necessario, ma vista anche come momento di liberazione pulsionale è orgia dei sensi che va vissuta in solitaria o, al più, come una sorta di santificazione matrimoniale.
La società vampirica, infatti, mal tollera e anzi proibisce espressamente uno dei cardini su cui si regge l’archetipo stesso del vampiro: la promiscuità. I vampiri sono o soli, single per scelta estetica e dandysta prima ancora che per esigenza esistenziale, o, nella migliore delle ipotesi, come coppia santificata nella caccia e nel sesso. Caccia e sesso, poi, sono un tutt’uno imprescindibile visto che le zanne e l’istinto predatorio sorgono nel vampiro a stretto ridosso di una forte eccitazione sessuale così come vulgata vuole e in pieno rispetto della tradizione soprattutto novecentesca del tema.
In questo contesto l’arrivo della sorella malevola crea scompiglio delle regole su molteplici livelli. La vampira, incapace di trovare una fissa dimora per via della scia di morti umane che si lascia dietro, guarda con disprezzo le norme sociali di questo nuovo mondo vampirico e rivendica, con la sua sola presenza passionale e pulsionale, la vertigine della tentazione del sesso e del sangue senza compromessi e false ipocrisie. Per lei il vampiro è cacciatore e non sognatore e le norme di convivenza civile col genere umano hanno lo stesso senso che potrebbe avere un tentativo di convivenza e rispetto dell’uomo con la migliore cacciagione.
La presenza della vampira, tornata alla casa avita e costretta ad alcuni giorni di convivenza con la sorella, agisce come catalizzatore e riattivatore degli istinti predatori dell’intera società vampirica. La sua sola presenza strappa la maschera ipocrita dei suoi simili e rivela a tutti che, per quanta strada si voglia fare in cerca di regole di convivenza, la vera natura del vampiro si esprime sempre e comunque nella caccia all’uomo.
E quando, nel finale, la buona società si libera ponziopilatescamente di questo scomondo elemento estreneo lo spettatore non può non avvertire come siano ben più mostruosi e terribili i sedicenti vampiri civilizzati rispetto alla pur terribile vampira che resta invece pura nella sua semplicità incapace di compromessi.
Qualsiasi parallelo con le guerre di pace e con i fantasmi borghesi che ammantano di bon ton e di ottimo gusto le morti dei più deboli e degli sfruttati sono ovviamente le benvenute anche se di Bunuel si respira abbastanza poco in questo film che nasce, piuttosto, come omaggio a Mario Bava.
Anzi, Cassavetes lavora piuttosto bene d’inventariato nel ricomporre un quadro assai suggestivo degli archetipi cinematgografici e letterari del mito vampirico. Così si spiegano i continui giochi di rimando sulla resa della figura diafana e di pallido erotismo della giovane vampira in contrasto col rosso acceso dei vestiti e il nero corvino dei capelli della sorella malevola. Alcune sequenze sono ricche di suggestioni erotiche estremamente ambigue come quella in cui la vampira rivela la sua natura animalesca all’uomo destinato a divenire suo marito ammanettandosi ad un letto per evitare di morderlo una volta raggiunta l’eccitazione. Altre sfiorano come di consueto il tema del lesbismo e della tentazione saffica.
Il film racconta il tema del bacio del vampiro restando sempre ancorato ad una dimensione femminile, mancando figure portanti di vampiri maschio, il che allontana il racconto da suggestione draculesche per avviarlo su terreni alla Le Fanu.
Peccato, quindi, che le allusioni all’industria hollywoodiana (il neo vampiro è uno sceneggiatore e una delle vittime è un produttore) resti lettera non-morta.
(Kiss of the Damned); Regia: Xan Cassavetes; sceneggiatura: Xan Cassavetes; fotografia: Tobias Datum; montaggio: John Lyons, Taylor Gianotas; musica: Steve Hufsteter; interpreti: Josephine de la Baume (Djuna), Milo Ventimiglia (Paulo), Roxane Mesquida (Mimi), Michael Rapaport (Ben Rider), Anna Mouglalis (Xenia), Riley Keough (Anne), Jonathan Caouette (Anton), Jay Brannan (Hans); produzione: Deerjen, Verisimilitude; origine: USA, 2012; durata: 97’