L’ALBERO DELLA VITA - PERCHE’ NO

Molti registi hanno tentato l’impresa di parlare del mistero della vita e di quello della morte ma pochissimi ci sono riusciti senza cadere nel patetico. La ricerca del senso dell’esistenza è stato affrontato in lungo e in largo ma raramente si sono raggiunti i suoni sommessi dei sussurri e quelli agghiaccianti delle grida come nel cinema di Bergman, la spiritualità tarkovskijana, la profondità poetica di Pasolini. Il significato della parola coraggio risiede nel lasciarsi morire per poi rinascere, non senza sofferenza, sotto forma di poesia e di mistero. Quando il risultato invece si discosta dai propositi non si può più parlare di coraggio, ma di ingenua incoscienza. E quest’ultima sembra essere la definizione più calzante per il nuovo lavoro di Darren Aronofsky.
Il regista finora non era stato lontano dalle grandi tematiche. Impavido e con un pizzico di necessaria presunzione, aveva affrontato il tema della ricerca di Dio, riuscendo a far diventare puro cinema l’ossessiva ricerca dell’assoluto tramite affascinanti rimandi tra storia e filosofia, religione e matematica in quel gioiello che prende il nome di Pi greco - Il teorema del delirio; il cineasta statunitense aveva effettuato un’analisi lucida e terrificante di una società moderna vittima di se stessa, dei suoi falsi miti e delle più disparate forme di dipendenza psicologica in Requiem for a dream. Con L’albero della vita, dopo sei anni di lunga attesa, il regista ritorna con argomenti ’pericolosi’: la vita, la morte, l’amore.
Stavolta il passo sembrerebbe essere stato più lungo della gamba. Le premesse per un capolavoro c’erano tutte: la vicenda di un uomo che tenta di trovare una cura per il cancro che gli sta portando via la moglie, si proietta nella storia e si ripete nei secoli. Così la coppia Jackman-Weisz si ritrova ai tempi della colonizzazione spagnola e perpetua le sue vicende in un universo in cui scompaiono i concetti di spazio e di tempo. E’ singolare come un film che ha le potenzialità di un’opera d’arte possa, per via di alcune ingenuità, allontanarsi dalle aspettative tanto da rasentare l’umorismo involontario, come è ravvisabile in alcuni dialoghi fra i protagonisti.
Il problema non risiede nel fatto che il regista abbia messo troppa carne al fuoco, ma che abbia fatto bruciare quella carne fatta di dolore, di amore, di passione. L’albero della vita è un film che vive di episodi slegati, di inserti retorici e deliri storici al tempo dei Maya, i cui incastri sembrano spesso essere gratuiti. La ricerca dell’albero della vita, fra storia e mito, è priva di spessore e subisce di continuo il peso schiacciante della storia d’amore obbligatoria fra marito impavido e moglie morente (o grottesca regina di Spagna). L’impotenza nel far decollare la vicenda da parte di Aronofsky diventa troppo, pericolosamente, simile a quella del suo protagonista che vaga nei millenni alla ricerca della vita eterna. Il regista sembra essere frenato dalle briglie del commerciale, del banale e, fatto più grave, del lacrimevole: proprio lui che aveva descritto la vita e la propensione verso l’assoluto in maniera così cinica, violenta, sincera.
L’albero della vita appare più come un atto d’amore del regista nei confronti della moglie Rachel Weisz e forse come specchio della paura di perdere ciò che ha di più caro, piuttosto che una manifestazione poetica rivolta al pubblico, di nicchia o meno. E’ proprio nei momenti in cui il regista si lascia andare con l’espressione del suo universo interiore che il film regala emozioni vere. Gli ultimi dieci minuti, verso cui si giunge con una certa fatica, sono un trionfo di luci e di colori, in cui si avverte che i misteri della vita e della morte sono facce della stessa medaglia. E la medaglia è l’Uomo stesso. L’idea della linfa dell’albero, così simile allo sperma, la tensione verso l’infinito, la proiezione verso l’immortalità, il sogno, il ricordo e la fusione fra mito e storia trovano finalmente un loro equilibrio solamente in un finale epico e kubrickiano, supportato dalla percussiva colonna sonora di Clint Mansell. Ma sono solo pochi minuti. E tutto il resto?
L’albero della vita non è un film da condannare e mai ritorno fu più gradito di quello di Darren Aronofsky. Ma non abbiamo altro modo di definirlo se non con la scomoda definizione di ’capolavoro mancato’.
(The Fountain) Regia e sceneggiatura: Darren Aronofsky; soggetto: Darren Aronofsky e Ari Handel; fotografia: Matthew Libatique; montaggio: Jay Rabinowitz; musica: Clint Mansell; scenografia: James Chinlund; costumi: Renée April; interpreti: Hugh Jackman (Tom), Rachel Weisz (Izzi), Ellen Burstyn (Lilian), Alexander Bisping (Del Toro), Mark Margolis (Padre Avila); produzione: Warner Bros., Regency Enterprises, Epsilon Motion Pictures, New Regency Pictures, Protozoa Pictures; distribuzione: 20th Century Fox Italia; origine: U.S.A. 2006; durata: 96’ web info: sito ufficiale
