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L’amore degli esordi: Rosi e i Taviani - Tff 2007

Pubblicato il 5 dicembre 2007 da Edoardo Zaccagnini


L'amore degli esordi: Rosi e i Taviani - Tff 2007

La Sfida, un film attuale, modernissimo e di una qualità estetitca sopraffina. Un Uomo da bruciare: un film appesantito dagli anni ma di grande personalità e vigore. Francesco Rosi e i Fratelli Paolo e Vittorio Taviani: tre uomini spessi e saggi, con tanto senno e mestiere, con tanta voglia ancora di raccontarsi e raccontare il cinema. In una Torino cinefila, elegante e dalla memoria lunga, soprattutto per le cose belle come i bei film. Città sempre rassicurante Torino, ed accogliente nel suo autunno freddo e nebbioso, di luci già natalizie e caldi caffè e cappuccini e cioccolate. Uomini e film voluti fortemente dal direttore Nanni Moretti. Rosi e i Taviani sono i primi due appuntamenti della sezione "L’amore degli esordi".
E due esordi così, a riguardarli su uno schermo enorme, fanno l’affermazione che segue ferma e decisa: importantissimi e magari ad avercene oggi. 1958 e 1961. Cinquant’anni fa, quando Moretti non era ancora nato (o lo aveva fatto da poco). Due film di denuncia prima che di grande cinema. Il primo, quasi perfetto, è la storia di un sistema (La camorra) e di una cultura, quella partenopea. Ma anche cronaca di quel periodo, anticipazione della cronaca futura, film torcia che illumina gli spazi economici, politici e culturali di un luogo e di un tempo. Sono personaggi inventati quello di Vito Polara e quello di Salvatore Ajello, ma per loro è valida la didascalia che aprirà il capitolo successivo di questo cinema rosiano definito poi di impegno civile: Le mani sulla città . Che spiegava nell’incipit: “Personaggi e fatti narrati sono frutto della fantasia, ma autentica è la realtà che li produce”. Il film è un noir, un melodramma e tanto altro. Fotografia sceltissima, inquadrature all’americana. Dirà in dibattito Rosi che il cinema di Kazan lo influenzava e che Kazan amava il suo cinema. Molto prendeva Rosi dal cinema americano come molto lo conivolgevano, e commuovevano, capolavori come Ladri di Biciclette, il Gattopardo ed Umberto D. Ne dirà tante di cose quel maestro lucido di Francesco Rosi nell’incontro con un direttor giovane appassionato, attento e quasi silenzioso. Persino che il film che avrebbe voluto fare, e che non è riuscito a fare, sarebbe stato su Che Guevara. Poi non se ne fece nulla perché i cubani prentendavano l’approvazione del film una volta finito. E dopo ancora perché Che guevara divenne il Che che finì sulle magliette dei ragazzi di tutto il mondo. Simpatico Rosi, e sempre molto interessante. Da baciarlo in fronte quando ha dice che il cinema italiano meglio di qualsiasi altra cinematografia europea ha saputo raccontare la nostra storia e la conservare la nostra memoria. E che per questo andrebbe infilato a forza nei programmi scolastici. Noi ne saremmo felici per tutta una serie di motivi. Non solo personali. Poi cosa ha detto? Ah si, Che Visconti era un genio e che prima di lavorare al suo fianco (La terra trema) non aveva ancora pensato di fare il regista. L’esperienza di Acitrezza fu determinante. Sei mesi di lavoro con donne e pescatori. Visconti li considerava attori e pretendeva da essi il massimo e anche di più. Serviranno molto a Rosi quegli attori non attori. Li metterà quasi costantemente in ogni suo film, un paio di metri dietro al protagonista, con licenza di interloquire e di dare valore non solo coreografico al film. E a proposito di attori è enorme l’elogio a Volontè. Un professionista Maniacale. Uno che viveva per far l’attore e che preparava ogni scena nei dettagli più particolari. Prendiamolo un istante ancora Volontè, ed utilizziamolo per agganciarci all’incontro coi fratelli Paolo e Vittorio. Anche loro, a proiezione finita, si infilano, in maniera del tutto spontanea, nel ricordo di questo immenso genio. Prima Vittorio: "Ricordo che per il film Sotto il segno dello scorpione, 1969, uno dei nostri film più militanti e coraggiosi linguisticamente, Volontè si presentò completamente rasato a zero. Lì per lì ci infuriammo perché nessuno lo aveva autorizzato a comportarsi in quel modo. Glielo facemmo notare e non gli nascondemmo la nostra delusione per quel comportamento. Lui rimase della convinzione che quel personaggio (Renno) andava interepretato in quel modo. Ebbene, a distanza capimmo che aveva ragione lui.
Poi Paolo: “Gian Maria era un talento di proporzioni indescrivibili. Ma aveva un carattere non facile. Sul set era sempre inappuntabile, un genio ed un grande professionista. Però se aveva uno di quei giorni poteva divetare dura. Come quella volta in cui, proprio in Un uomo da bruciare, doveva eseguire una scena in cui alcuni contadini tornavano dai campi quando il sole era quasi tramontato. Lui li avrebbe dovuti guardare e poi dire: beh, a quest’ora tornate. Primo ciak, carrello, restringimento di campo, la battuta non parte. Silenzio. La rifacciamo. Si si non c’è problema. Carrello, battuta, la battuta non c’è. Così per tre quattro volte. Alla fine, al quinto ciak e al quinto silenzio, Vittorio, che ora lo vedete bono ma così bono nun gli è, gli si getta addosso e lo afferra per le gambe. Tanto grosso era l’uno e tanto piccolo l’altro. Insomma, tutti a dividere e separare, alla fine la scena fu fatta."
Volontè, Umberto Orsini, Gaetano Giuliani De Negri, I sovversivi, padre padrone. Il racconto dei Taviani è più lineare di quello di Rosi. Moretti li conosce meglio, quasi a menadito. E’stato loro attore e rompiscatole ufficiale. Dal ’73 inizierà a chiedere di poter essere loro collaboratore.
Vittorio ricorda i suoi corti e di come dicesse a Moretti che era già pronto per fare il regista, che l’assistentato non gli serviva. Nanni chiede a loro e loro parlano di lui.”Il cinema Nanni ce lo ha sempre avuto nel sangue, per lui è tutto”. “Beh proprio tutto no, molto si ma tutto no!”, fa lui mentre si nasconde e mentre sorride. I Taviani ricordano che per Padre Padrone, film partito con due soldi e senza nessuna grande aspettativa (vincerà invece la palma d’oro nel ’77 con una giuria presieduta da Roberto Rossellini) concessero al Regista di Caro Diario la possibilità di interpretare un piccolo ruolo, quello del commilitone colto, borghese e illuminato. I Taviani giravano ogni scena una massimo due volte. Con Moretti non si finiva più. “La posso rifare, così non mi piace quella cosa, quell’altra cosa, quell’altra cosa ancora.” Insomma, il perfezionismo e la maniacalità già morettiane.
Un uomo da bruciare inizia con una scena bellissima in cui è molto difficile non riconoscere la mano dei Taviani. Prima inquadratura di una carriera, già un manifesto. Poi la scelta di un personaggio forte come quello di Salvatore Carnevale. Pellicola con un rapporto già magico tra personaggi e paesaggio. E se ripensiamo a La sfida possiamo associare due esordi: entrambi di denuncia e poesia, uno contro la camorra, l’altro contro la mafia. Alla faccia della fiction televisiva e del cinema che non crea problemi a nessuno. E del coraggio e dell’indole di chi faceva il cinema in quegli anni. Il film dei Taviani appare meno in forma di quello di Rosi. Molto autoriale nella messa in scena e molto particolare nella forma in cui il sindacalista ucciso dalla mafia viene raccontato. Rimane di certo una perla che il tempo rende ogni giorno più valorosa. Un documento più eccezionale ogni giorno che passa. Come Il terrorista di Gianfranco Bosio, come Chi lavora è perduto di Tinto Brass e come La lunga notte del 43 di Florestano Vancini. Gli altri tre meravigliosi appuntamenti della sezione "L’amore degli esordi". Sarà la magia del tempo lontano ma che cinema ragazzi….


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