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L’AMORE E’ ETERNO FINCHE’ DURA

Pubblicato il 18 febbraio 2004 da Edoardo Zaccagnini


L'AMORE E' ETERNO FINCHE' DURA

E venne il giorno in cui chiesero a Verdone se si sentisse più vicino a Bergman o a Woody Allen. Carlo alzò gli occhi al cielo, spaesato come alcuni dei suoi vecchi personaggi. Sospirò, pensò un istante e poi rispose che l’ammirazione per la scrittura di Allen è totale, mentre del regista svedese ama la meticolosa, irrisolta e fertile analisi dell’essere umano, da solo e in relazione. Poi sorrise, lasciò cadere l’espressione ansiosa dal suo rotondo viso di cinquantenne sereno, e negò ogni nesso volontario tra lui e i due mostri. Del resto Io ed Annie vinse quattro oscar, e la carriera del Maestro svedese rappresenta da sola, una colonna portante della storia del cinema mondiale. Ma la domanda, nella scapigliata bizzarria rampante del suo autore, è testimone dell’attuale identità e dignità del cinema verdoniano. La cosiddetta seconda fase. Commedia, istant movie, riflessione sulle due unità della coppia moderna, sui suoi figli e sul disagio esistenziale di un unico comun denominatore: l’essere umano nella fragilità della sua definizione. Chi ha amato il primo Verdone ricorda bene il manierismo volgare e fastidioso di Viaggi di Nozze e Gallo cedrone; gli anonimi C’ era un cinese in coma e Sono pazzo di Iris Blond. Chi ha amato il primo Verdone ricorda a memoria nomi, battute e personaggi dei suoi primi film. Li guarda ancora volentieri apprezzandone ogni volta il talento fisico ed esplosivo del protagonista. Chi ha amato il primo Verdone lo scorge ancora quando sfugge per un istante alla guardia degli sceneggiatori Plastino e Marciano, regalandoci in pillole, quel tenero grottesco che ci ha fatto innamorare. Carlo Verdone, la cui vita e carriera sono eternamente ed imprescindibilmente legate alla città di Roma, deve aver riflettutto su quegli incontri in cui la gente lo fermava abbracciandolo e salutandolo: "a Carlé! Sei sempre ’n grande, ma i firme de na vorta nii fai più!". Deve avere, con ritardo, preso atto della parabola discendente in cui si era, obbligatoriamente ritrovato. Alessandro Piva, regista de La capagira e del più recente Mio cognato sogna un film sul vicolo cieco in cui un comico finisce per entrare, dopo aver toccato picchi enormi di successo. Pensa a Verdone, ad Albanese... L’ attore romano ha fuso l’io col super io, dove il secondo è quel giudice severo ed inflessibile, corresponsabile delle ansie comiche del primo. E’ l’occhio-guida di un padre presente e autoritario che mescolato al desiderio di sincerità e semplicità del figlio, fa nascere, da Ma che colpa abbiamo noi, un autore nuovo, definito. Sincero e disincantato. Distante anche da commedie brillanti e di successo, come Compagni di scuola (secondo il regista il suo miglior film), Io e mia sorella, e Maledetto il giorno che t’ ho incontrato. Distante nel rapporto col tempo e con lo spazio. L’umorismo si fa più amaro, le osservazioni di costume più acute e puntuali. La gestualità patologica si addolcisce di fronte alle sfumature mucciniane di una Morante più incisiva di Stefania Rocca. Più difficili gag e ipocondrie, ma i guizzi del passato, buffi e goffi, si sprigionano a ogni metro di spazio concesso.

[febbraio 2004]

regia: Carlo Verdone, sceneggiatura: Pasquale Plastino, Francesca Marciano, Carlo Verdone, fotografia: Danilo Desideri, montaggio: Antonio Siciliano, Fabio Liberatori, interpreti: Carlo Verdone, Laura Morante, Stefania Rocca, Rodolfo Corsato, produzione: Vittorio Cecchi Gori, origine: Italia, durata: 108’, distribuzione: Medusa

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