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L’illusionista

Pubblicato il 28 ottobre 2010 da Giovanella Rendi


L'illusionista

Jacques Tati incontra Jacques Tati. Letteralmente, i due si guardano e sobbalzano e corrono in direzioni opposte, uno dei due è il protagonista di Mon Oncle, proiettato sullo schermo di un cinema, l’altro è il suo doppio senza nome entratovi per caso, protagonista di The Illusionist che il geniale regista e disegnatore Sylvain Chomet (Les triplettes des Belleville) ha tratto da una sceneggiatura scritta da Tati tra il 1956 e il 1959 e mai realizzata.
Lunga è stata la gestazione di questo film, non solo per gli inevitabili tempi dell’animazione (un 2D che si rifà esplicitamente ai lungometraggi della Disney degli anni ’60) ma anche per la necessità di adattare la sceneggiatura e soprattutto studiare una enorme mole di materiale e vedere e rivedere le immagini di Tati. Per coglierne al meglio il personaggio senza scontentare i suoi ammiratori e soprattutto la famiglia, che mai aveva voluto cederne i diritti, incapace di vedere qualsiasi attore interpretarne il personaggio. Davanti alla prospettiva della sua trasfomazione in un cartone animato, e anche considerando impliciti ed espliciti omaggi presenti in Les triplettes, le resistenze sono cadute, anche se la figlia Sophie Tatichescheff è morta qualche mese prima della fine del film.
Proprio a lei il film è dedicato, sia da Chomet nei titoli di coda, che dallo stesso Tati, la cui sceneggiatura è in parte il commiato per la scomparsa del mondo ingenuo e magico del Music Hall, con le loro poltrone di velluto e l’aria un po’ fumosa, ma soprattutto una “lunga lettera d’amore da un padre a una figlia” (così Chomet). L’anonimo illusionista del titolo è infatti un anziano prestigiatore alla fine della carriera, messo ormai da parte dalla televisione, dal nascente rock’n roll, dalla modernità postbellica. Con l’eleganza impassibile di Monsieur Hulot, si esibisce davanti a platee un attimo prima piene di ragazzine adoranti per un nuovo gruppo musicale e poi improvvisamente vuote, se non per una vecchietta e un bambino. Solo in uno sperduto villaggio scozzese, dove è appena arrivata l’elettricità, i suoi trucchi sono apprezzati come una volta, soprattutto da una ragazzina che li reputa veramente opera di magia e decide di seguire il prestigiatore nel suo cammino. Inconsapevolmente crudele la ragazzina chiede in continuazione regali perchè crede davvero che i soldi spuntino nelle mani dal nulla, costringendo il vecchio illusionista a lavorare di nascosto, combattendo contro la miseria che colpisce lui come altri personaggi di un circo triste, vecchi clowns, acrobati, ventriloqui. Non siamo molto lontani dal Calvero di Luci della ribalta, tuttavia a scongiurare il rischio di patetismo è in parte il fatto che al centro della vicenda ci sia un gioco implicito e non un transfert post-traumatico, e soprattutto la leggerezza propria di Tati, che Chomet (ri)mette in scena alla perfezione. Le trovate si susseguono straordinariamente, fondali quasi impressionistici si alternano all’accuratezza degli interni, un soundrack da pianola meccanica fa da sottofondo, eppure nel film si sorride sempre ma non si ride veramente quasi mai. Forse non è un caso che Tati non abbia mai voluto realizzare questo film, preferendo nascondersi dietro la maschera di Monsieur Hulot.
La ragazzina sta crescendo, si innamora, si prepara a lasciare il suo vecchio amico, ma l’illusionista scompare prima di lei, lasciando dietro di sè un semplice biglietto: “magicians don’t exist”. Davanti a questo film, è difficile esserne proprio sicuri.


CAST & CREDITS

(The Illusionist) Regia: Sylvain Chomet; Sceneggiatura: Sylvain Chomet, da una sceneggiatura di Jacques Tati; Musica: Sylvain Chomet; Produzione: Django Films Ltd.; Distribuzione: Pathé International; Origine: Gran Bretagna/Francia 2010; Durata: 90’


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