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L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ERNESTO

Pubblicato il 11 febbraio 2003 da Giovanna Quercia


L'IMPORTANZA DI CHIAMARSI ERNESTO

Gli attori sono tutti in parte e decisamente bravi, come si conviene alla tradizione britannica; la sceneggiatura, adattata con qualche licenza dall’ultima commedia di Oscar Wilde, manco a dirlo, è ben congegnata e ricca di dialoghi brillanti e paradossi al vetriolo; la campagna inglese ovviamente è incantevole... potremmo continuare con l’elenco dei meriti dell’opera di Oliver Parker - già regista di Un marito ideale, sempre tratto da Wilde - ma sappiamo bene che la somma dei buoni presupposti per un buon film non danno come risultato un buon film. Non c’è niente che si lasci ricordare in questo adattamento che intende sposare le finezze anticonformiste di un testo dell’epoca vittoriana con le idilliache ambientazioni rurali delle commedie shakespeariane, se si escludono alcune irresistibili scene umoristiche il cui merito va ascritto unicamente ad Oscar Wilde. Una per tutte, il vero e proprio test attitudinale cui la terribile Lady Bracknell sottopone l’aspirante sposo della figlia decretandone quindi l’inadeguatezza in 5 minuti. Il retrogusto amaro che il cinismo di Wilde mira a smascherare con il suo tocco leggero non emerge poiché il regista riproduce fedelmente le scene di dialogo mentre sceglie uno stile che potremmo definire clippistico per i momenti cinematograficamente rilevanti, ovvero le pause del testo che consentirebbero alla regia di far parlare le immagini. Ebbene, proprio in quei momenti Parker ricorre ad un montaggio serrato sprofondato in una colonna musicale talmente avvolgente da stroncare sul nascere qualsiasi emozione o effetto comico. Valga per tutte la scena in cui Gwendolen, assurdamente determinata a sposare un uomo qualsiasi purché si chiami Ernesto, si fa tatuare questo nome sul fondoschiena. Gesto ribelle? Sublime superficialità? Non lo sappiamo perché Parker filma la scena - vera occasione cinematografica per aggiungere qualcosa al testo teatrale - come un frettoloso siparietto musicale. La commedia di Wilde si basa sul fatto che ognuno dei personaggi riesce a vivere un’esistenza segreta attraverso un’identità nascosta oppure coltivando fervide fantasie. Il film di Parker, contrariamente alla messinscena teatrale, ricostruisce visivamente queste vite parallele, ce ne dà un assaggio. Ma quest’operazione non è sufficiente. Non basta, a nostro parere, a sviscerare un testo che si era strategicamente servito del più classico impianto drammaturgico della commedia per veicolare ad un pubblico relativamente esteso contenuti tutt’altro che tradizionali. L’importanza di chiamarsi Ernest è una commedia divertente e spregiudicata che contiene in filigrana una sorta di manuale che potrebbe intitolarsi “Come riuscire a condurre un’esistenza improntata unicamente al proprio principio di piacere in un’epoca bigotta e repressiva senza per questo condannarsi alla marginalità”, ovvero il contrario di quanto finì per fare lo scrittore nella vita reale. Il rispetto delle regole della drammaturgia classica da parte di Wilde equivale alla strumentale adesione ai rigidi costumi della buona società dell’epoca da parte di tutti i personaggi. Ma la commedia di Wilde è stata scritta nel 1893, nell’Inghilterra vittoriana. Riprodurla più o meno fedelmente sul grande schermo 110 anni dopo, a nostro parere, equivale a tradire lo spirito di Wilde.

[febbraio 2003]

Regia: Oliver Parker. Sceneggiatura: Oliver Parker dall’omonima pièce di Oscar Wilde. Fotografia: Tony Pierce-Roberts. Montaggio: Guy Bensley. Musica: Charlie Mole. Interpreti: Colin Firth, Rupert Everett, Frances O’Connor, Reese Whiterspoon, Judi Dench. Produzione: Good Machine International / Ealing Studios / Miramax / Filmcouncil / New Market Group / Fragile film. Origine: Inghilterra 2003. Durata: 97’. Distribuzione: Medusa film. Web info: www.medusa.it

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