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L’ISOLA DI FERRO

Pubblicato il 16 giugno 2006 da Matteo Botrugno


L'ISOLA DI FERRO

Presentato nella sezione Quinzaine des réalisateurs a Cannes 2005, riesce ad approdare in Italia questo film iraniano, piccola dimostrazione di come si possa realizzare un buon lavoro partendo da un’idea interessante e avendo a disposizione un budget relativamente limitato. L’isola in questione è una vecchia petroliera, da anni abbandonata nel Golfo Persico, trasformata in una sorta di città autosufficiente dal capitano Nemat, che ne diventa leader indiscusso.
Quando un lavoro cinematografico è imperniato su un forte simbolismo, il rischio maggiore è il conseguente appesantirsi della vicenda raccontata, che può cedere sotto la retorica della metafora ostinata. Rasoulof riesce invece nell’impresa di costruire un microcosmo abitativo perfettamente ‘in scala’: la nave è popolata da diversi personaggi, ognuno protagonista di una piccola storia personale, piccoli mondi che galleggiano isolati nelle verdi acque del Golfo. Ognuna di queste vicende è fotografata con grande lucidità dal regista, che trova un elegante e discreto pretesto per riflettere sulla situazione delle comunità che vivono a sud dell’Iran. Troviamo quindi il capitano, una figura carismatica in cui si manifesta la dualità tipica del capo politico, diviso tra senso di giustizia e ansia di potere: i giornali sono vietati, la comunicazione con la terraferma è ridotta al minimo, la fede religiosa, che tanto influenza la vita degli abitanti dell’isola, viene strumentalizzata per fini personali. Malgrado tutto però, il capitano Nemat non risulta un personaggio totalmente negativo, le sue azioni sembrano avere sempre un perché, e le sue decisioni, per quanto dure, si rivelano spesso necessarie per evitare che il ‘popolo’ sprofondi nell’anarchia.
La figura del maestro e quella del giovane Ahmad diventano metafora dei due atteggiamenti rispetto al grande potere concentrato nelle mani del capitano: il primo si pone civilmente, intraprendendo la strada della ragione, dell’informazione, dell’insegnamento ai bambini volto a spiegare che quella sulla nave non è la vera vita e che, soprattutto, la singolare abitazione rischia di affondare da un momento all’altro. Il ragazzo invece, rappresenta quella fetta della nuova generazione che rifiuta a prescindere la regola, ritrovandosi sovrastato dal suo stesso istinto e dall’amore per una bella ragazza tenuta segregata dal padre. Ragione e istinto devono fare i conti non solo con il potere, ma con tutto ciò che fa da contorno alle vicende dei comprimari, con la miseria, la desolazione, la mancanza di qualsiasi bene materiale. E la trovata geniale di Rasoulof, autore tra l’altro della pièce teatrale che dopo dieci anni ha ispirato questo film, è quella di aver dato perfettamente l’idea di un’intera popolazione senza terra, che per vivere si rifugia su una nave: quando questa stessa diventa una simbolica città, rimane l’unica fonte di sfruttamento e di commercio per gli abitanti, costretti a venderne le parti in ferro di cui è composta. Come ogni comunità sfrutta la terra su cui vive, così la gente dell’isola di ferro è costretta a vendere la propria metallica terra, ritornando così alla situazione di partenza.
La regia non è mai invadente, e la mdp segue gli attori in maniera discreta, lasciandoli tra l’altro liberi di trovare la propria dimensione tramite quell’improvvisazione che caratterizza fortemente l’opera di Abbas Kiarostami. L’isola di ferro non è solamente una disillusa satira su un sistema politico-sociale che stenta a decollare. Rasoulof, partecipe all’azione senza mai disturbarla con velleità tecniche, si concede alcuni sprazzi di poesia, che si sublima nella figura del ‘bimbo-pesce’. Con il gesto di liberare i pesci che entrano da un buco della nave, sembra voler mandare un messaggio di speranza: come i pesci tornano al mare, il popolo dovrà tornare alla terra. La sincerità dell’infantile eroismo rappresenta la speranza nell’immaginario dell’autore iraniano, così come lo sguardo dell’uomo anziano che, sorride, una volta vista la terra.
Una buona opera dunque, in cui il simbolico è sempre rivolto ad esplorare i drammi di un reale in cui si intravede comunque la luce della speranza; la metafora viene adoperata al solo scopo di analizzare le varie realtà sociali nascoste in una piccola comunità. Necessario dare la possibilità ad un lavoro che, forse per sua fortuna, esce in una periodo dell’anno in cui scarseggiano pellicole di qualità.

(Jazireh Ahani - The iron island) Regia, soggetto e sceneggiatura: Mohammad Rasoulof; fotografia: Reza Jalali; montaggio: Bahram Dehghan; musiche: Mohammad-Reza Aligholi; scenografie: Mohammad Rasoulof; interpreti: Ali Nasirian (Capitano Nemat), Hossein Farzi-Zadeh (Ahmad), Neda Pakdaman (La ragazza); produzione: Abolhasan Davoodimohammad Rasoulof per Farabi Cinema Foundation; distribuzione: Lucky Red origine: Iran 2006; durata: 90’; web info: sito ufficiale.

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