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L’ORIZZONTE DEGLI EVENTI

Pubblicato il 17 aprile 2005 da Edoardo Zaccagnini


L'ORIZZONTE DEGLI EVENTI

L’orizzonte degli eventi arriva mentre il cinema italiano si coccola Saimir e lo cita in continuazione elogiandone l’integralità del frammento, l’asciuttezza e il corpo del mostrato. Lo sguardo invisibile dell’esordiente Munzi è arrivato fino al buio delle tane clandestine e, sfiorando la quotidianità fenomenologica di un litorale post-pasoliniano, ha raccontato una storia individuo-adolescenziale con tensioni e ritmi da cinema intelligente e coraggioso. Per ciò il giovane Munzi ha ora i privilegi dell’enfant prodige e può fare il verso alle complicazioni intrinseche del film di Marco Tullio Giordana: altro polo del campo in cui si installa, per scelte tematiche e stilistiche, L’orizzonte degli eventi. Saimir è prima di tutto il film; Quando sei nato non puoi più nasconderti è, prima ancora che pellicola, Marco Tullio Giordana, con l’antico fardello dei suoi ri-passaggi lirici e la stazza elegante della sua figura sempre più importante. I due lavori hanno aspetti in comune e diversità consistenti: il primo è un finto documentario che, aggrappandosi a una vita immigrata e pedinandone la costante sofferenza, spalanca clamorosamente una finestra già aperta sopra un mondo chiacchierato e volontariamente sconosciuto. Quello di Giordana è un film emozionante sul presente dell’Italia e sull’incontro (inevitabile) con l’altro che spinge e si dimena per provare a vivere. Mentre la violenza brada e incontaminata di Saimir non lascia dubbi allo spettatore e lo sprona ad un giudizio secco e definitivo, il “romanzo” di Giordana parla di italiani, di emozioni e di rapporti comuni, di incomunicabilità e comunicazione tra realtà che vanno in direzioni diverse e che si incontrano per caso o per accidente. Saimir e Quando sei nato non puoi più nasconderti sono i due poli del miglior cinema italiano del presente: l’esordio spregiudicato e scarno del primo si rafforza e carica di significati ulteriori accanto al capitolo nuovo di un autore sostenuto e ancora autenticamente aperto al mondo. Al centro della loro distanza sta la giusta collocazione di Daniele Vicari ma il suo è un galleggiare fermo e senza direzione. Come Giordana, Vicari fonde in un rapporto a due la questione immigrazione e come Munzi racconta una vicenda clandestina attraverso un realismo convulso e affannato. Ma la divisione in due blocchi (praticamente separati) toglie unità e corpo al film e lascia dubbi circa le intenzioni più sentite dello stesso: il realismo interiore del protagonista si sbilancia in una disavventura radicale e poco formativa che lascia in sospeso la prima traccia per urtare in maniera tanto decisa quanto inefficace contro il binomio immigrazione-povertà. L’orizzonte degli eventi sembra un appartamento a tre camere in cui le prime due comunicano tra loro e la terza rimane staccata in fondo al corridoio. Nella prima c’è il mondo del lavoro e nella seconda l’ormai familiare nebulosa dei rapporti sentimentali. In entrambe le stanze domina il silenzio e un arredamento elegante e manierato. Nell’ultima camera c’è il mondo dell’immigrazione clandestina che diventa l’occasione (mancata) di un incontro-scontro non tanto tra culture quanto tra esistenze. Giordana è stato chiaro: ha parlato di un rapporto e ha raccontato senza retorica le paure, i pregiudizi e le necessità della condizione (umana prima che culturale) degli italiani di fronte al problema dell’immigrazione. Il film di Vicari racconta il tormento esistenziale (e senza soluzione) di un uomo che fatalmente incontra un’altra condizione e la supera, quasi distrattamente, per non cambiare. E’ interessante ed importante sapere che sul Gran sasso esista un mondo contadino-clandestino dove dominano la violenza e la sopraffazione ma sarebbe servito un modo più efficace ( e forse anche più semplice) per raccontarlo. Rimane un aspetto: i tre film sembrano ribadire che la distanza principale tra i popoli, gli spazi e più semplicemente le persone, non è culturale ma economica: è quella tra poveri e ricchi. I protagonisti di questi tre film sull’immigrazione non prendono neppure in considerazione le barriere religiose o di costume con cui sono cresciuti. La loro differenza è nei diritti, nella fame, nel freddo e nella sete. I due mondi di Vicari, quello sopra e quello sotto al Gran sasso, sono separati da tecnologia, istruzione e ricchezza. La villa bresciana di Giordana si contrappone al centro di prima accoglienza per lo stesso motivo.

(Aprile 2005)

regia: Daniele Vicari, sceneggiatura: Antonio Leotti, Laura Paolucci, Daniele Vicari, fotografia: Gherardo Gossi, montaggio: Marco Spoletini, musica: Massimo Zamboni, interpreti: Valerio Mastandrea, Gwanaelle Simon, Lulzim Zeqja, produzione: Fandango, distribuzione: Medusa

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