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L’uomo nero

Pubblicato il 8 dicembre 2009 da Edoardo Zaccagnini


L'uomo nero

Sergio Rubini non delude, con un film fantasiosamente autobiografico, intenso, scorrevole, visionario e divertente. Con un finale sorprendente e toccante. E’ un buon lavoro, L’uomo nero, fatto di ricostruzione storica gustosa e accattivante, una Puglia anni sessanta di sfumature dialettali, vicoli e campagne rimesse in piedi tra favola e ricordo, incastrate tra poteri locali, politici e intellettuali che siano, tra tradizioni antiche, usanze e poche spinte progressiste. E poi mentalità, ricorrenze, scappellotti in testa ai figli, vizi e facce rugose e vissute di locali che sono macchie, schizzi di colore luminoso su una tela dipinta con vivacità ed attenzione per i particolari. Ma c’è anche la tv, nella Puglia estiva e vitale del film, con La fiamma del peccato, Billy Wilder, 1944, messo in onda davanti a un bel gruppo di sedie e di paesani, e con le canzoni di quegli anni, il Geghe geghe geghege di Rita Pavone, insieme ed altre fischiettate distrattamente dai protagonisti. Un sud del passato con soffi di brezze felliniane, gradevoli, e con qualche tratto pittorico simile al recentessimo Baarìa di Tornatore. Solo che qui il paesaggio fa il paesaggio, ed il contorno fa il contorno, nel senso che tutto è equilibrato con la vicenda narrata, ed il contesto affabulato fa da cornice efficace a un quadro realistico meno pomposo dell’abnorme Baarìa, e sufficientemente pieno di chiara umanità. E’ bravo anche stavolta, Rubini, brillante e tenero, che torna d’un sol colpo al suo primo e al suo film più recente: La stazione, 1990, quasi vent’anni fa, come passa il tempo, e Colpo d’occhio, dietro l’angolo, del 2007. Non il suo migliore, ma neanche così infausto come qualcuno ha scritto, dimenticandosi che un film come quello non ha tradizione qui da noi, e che dunque è un tentativo coraggioso. Del primo film di Rubini ritornano la stazione ed il mestiere del protagonista; dell’ultimo il pugno forte in faccia alla critica d’arte, incravattata e al comando, che si riempie la bocca di parole e tiene il potere nelle mani, mentre dice cose prive di senso. In mezzo a questi due film ce ne sono molti altri del regista, da Tutto l’amore che c’è, a L’amore ritorna, da L’anima gemella, a La terra. Ed ora quest’ultimo palcoscenico verace di lontana provincia, ancora terra di origine aspra e magica, onnipresente, o quasi, nel cinema di un Rubini ormai quasi cinquantenne. Qui si muove il protagonista Ernesto, che è un capostazione pimpante ed ingenuo, testardo e strenuamente appassionato di pittura, pazzamente innamorato di Cezanne, suo maestro virtuale. Forse lo ama di più del suo figliolo e della sua bella moglie, che cucina bene, anche se lavora e sopporta in quasi silenzio quasi tutto, offrendo la camicia sempre ben stirata e tirando fuori gli artigli solo quando assalita dalla gelosia, sentimento accettato dal contesto culturale. Anche lei è parte di un Sud post bellico ancora intatto e saggiamente tratteggiato dall’autore. L’ometto Ernesto un pò meno, instancabile nella ricerca affannosa del suo talento artistico. E’ sognatore ed idealista, sconfitto e vincitore a modo suo, distratto dal suo fuoco che forse non è sacro, ma che è inarrestabile nell’alimentare il desiderio. La passione predispone Ernesto, involontariamente e senza ragionamento alcuno, a rompere con la tradizione, poichè strettissimo nei panni dell’impiegato e perchè ostile ai gangli provinciali del pregiudizio e dell’immobilismo. Sogna un’altra identità, cercandola disperatamente nel dipingere, rischiando seriamente di rovinare la vita di chi gli sta vicino, quella del figlio Gabriele in primis, osservatorio privilegiato di una buona commedia che tratta, insieme al tema del bisogno umano di soddisfazione, realizzazione della propria identità, anche quello della paternità. Non sappiamo se ha talento, questo Ernesto irriducibile, ma sappiamo che ama l’arte del dipingere alla follia, che non pensa mai, neanche per un solo istante, di mettere da parte questo suo divorante sentimento. Tutt’altro, istintivamente, ferocemente, in un certo senso, lo antepone a tutto il resto, facendosi cattivo, come dice il figliolo ferito dall’ennesima mancanza del padre, e poeta, quando dal finestrino del treno insegna a suo figlio a guardare bene i colori della natura, che di variazioni cromatiche è piena, e non ci sono solo quelle due o tre che vede la gente, ma molte altre, bellissime. E poi c’è il figlio, che, pur nella sofferenza, sembra aver compreso il messaggio paterno. Ancora prima della sorpresa finale, lietissima, sembra aver capito che la vita va spesa attraverso il coraggio che evita l’omologazione, l’accettazione delle regole imposte da altri, anche se può esserci del dolore. Il figlio ce l’ha fatta, è andato lontano, fisicamente ed esistenzialmente, salutato dai paesani come un uomo di successo, che somiglia, stavolta un pò troppo, al personaggio protagonista del Tornatore di Nuovo cinema paradiso. Sergio Rubini è totale nella disponibilità, perfetto nel dirigersi. Si sceglie per moglie una splendida Valeria Golino, e per cognato un Riccardo Scamarcio oramai attore. Valida la fotografia di Fabio Cianchetti, molto meno la musica di Nicola Piovani, esageramente simile a quella de La vita è bella, vero tallone d’achille d’un film maturo che omaggia il padre e la terra di Rubini, offrendo una commedia gradevolissima ed emozionante.


CAST & CREDITS

Regia: Sergio Rubini; sceneggiatura: Domenico Starnone, Carla Cavalluzzi, Sergio Rubini; fotografia: Fabio Cianchetti; montaggio: Esmeralda Calabria; interpreti: Sergio Rubini, Guido Giaquinto, Valeria Golino, Riccardo Scamarcio, Fabrizio Gifuni; produzione: Donatella Botti per Bianca Film; distribuzione: Medusa; origine: Italia, 2009


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