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La cinese

Pubblicato il 28 maggio 2020 da Marco Di Cesare


La cinese

Ragionando per assurdo – ma fino a un certo punto – mischiando invero la realtà e la finzione dei tempi andati, se i nostri avi avessero potuto contare su di una forma di controllo statale pressante come quella della nostra ipertecnologica contemporaneità, Boccaccio non avrebbe probabilmente avuto nemmeno il pretesto per scrivere il suo Decameron: giacché non avrebbe potuto contare su una verosimile cornice per i giovani novellatori, dieci estranei tra loro non precedentemente conviventi, che si riuniscono in una villa fuori Firenze per sfuggire alla Peste nera, intenti a utilizzare la letteratura per rifondare un mondo flagellato dalla malattia.
Questa è l’arte che presenta una visione sociale, politica, metaforica.

E poi c’è Jean Luc Godard...
L’artista che si occupa di politica: la ’Politique des auteurs’.

L’anno è il 1967. Passato alla storia non solamente per la Summer of Love e per il boom del rock psichedelico, ma perché precede il ’68. Oltre che rappresentare lo scoccare del cinquantesimo anniversario dalla Rivoluzione russa.
Tanti giovani, stanchi di vedersi cadere addosso le colpe dei genitori, contestano la società patriarcale assieme alla durezza e all’ipocrisia dei costumi della società (occidentale), essendo divenuti già dalla generazione precedente, da oltre un decennio, importante bersaglio non tanto più della propaganda bellica che era culminata nella mattanza della Seconda guerra mondiale, quanto della fredda pace che aleggiava tra i due contrapposti blocchi e che dopo il ’45 aveva portato sul palcoscenico un boom economico dalla strabiliante portata. Da ora i giovani vengono considerati in quanto consumatori, con una fetta di mercato dedicata solamente a loro: vari piaceri e non solo doveri, per un’età spensierata e ribelle (antinomia forse solo apparente, ma in ogni caso possibilmente costruita sui tavolini degli uffici marketing col fine di essere veicolata dai mass media, cinema compreso).
Ma vi sono anche i giovani tormentati e impegnati: socialmente, politicamente, non intenti tanto e solo a vivere e a costruire per sé, quanto per gli altri anche. E in La cinese sono cinque i ragazzi in missione per conto di Mao. Giacché Tse-tung e il suo ’Libretto rosso’ sono il primo l’occhio silenzioso e il secondo la Bibbia che guidano pensieri, parole e gesta di un gruppo comunista radicale che in estate si barrica all’interno di un bell’appartamento parigino, lasciato a disposizione dai genitori di un’amica di una di loro, per discutere dell’ideologia maoista e di come metterla in pratica: giacché La Cina è vicina, grazie alla Rivoluzione culturale che ha investito quel 1967 e che in settembre, in occasione del 28° Festival di Venezia, vedrà Godard vincere il Leone d’Argento a pari merito con Marco Bellocchio.

«Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita» scriveva Paul Nizan in Aden Arabia. Sempre attento, Godard, nella costruzione delle sue opere, ai riferimenti e alle citazioni letterarie, alle parole che danno vita al mondo e al valore puramente grafico dei segni, qui proprio ’Aden Arabia’ sarà il nome che sceglierà per sé la cellula maoista in questione. Così, seppure tra questi cinque a Parigi si annidino due coppie, la loro non sarà propriamente una serena estate d’amore. E, in un gioco di rimandi e ispirazioni tra realtà e finzione che riflette la ed è insieme una riflessione sulla realtà (come esplicitamente espresso, a proposito del da lui definito come teatro della realtà di Brecht e Shakespeare), JLG è ed è stato partner di entrambe le attrici protagoniste: con Juliet Berto ebbe una breve avventura pochi mesi prima di girare La cinese; mentre la sua compagna del momento, Anne Wiazemsky, di lì a prestissimo sarebbe diventata sua moglie per dodici anni e attrice-feticcio in una manciata di film. E proprio le vicende della futura sposa saranno di ispirazione al cineasta franco-svizzero per questa opera che darà inizio al loro sodalizio: dato che la Wiazemsky è studentessa presso la Facoltà di filosofia dell’università di Nanterre (banlieue parigina) e militante nel gruppo anarco-comunista di Daniel Cohn-Bendit (quindi per nulla maoista), Godard, grazie a tale relazione, ha potuto osservare e studiare dal vero una specifica e circoscritta realtà nel suo farsi. Da lì l’ha trasportata all’interno di una casa-set cinematografico-teatro senza palcoscenico-laboratorio nel quale poter effettuare un esperimento sociale e dentro il quale meglio studiare (e proporre, essendo un film comunque una rappresentazione) tale realtà, nel suo farsi e disfarsi, con annessa la visione autoriale: poiché Godard, nel momento che costruisce, sempre decostruisce.

Ed è per l’appunto questa pellicola una satira che si prende gioco del lessico e dei ragionamenti del gruppo, fino di conseguenza alle sue azioni, visto che viene evidenziata l’incongruenza e l’impossibilità di risolvere le contraddizioni insite nel rapporto esistente tra una scelta politica estremista e la fisica e sociale esistenza umana, particolarmente nell’Occidente capitalista dentro il quale il test godardiano è stato immerso. Mentre vari sono i legami con I demoni di Dostoevskij, romanzo che narra le gesta di un gruppo di rivoluzionari nichilisti, attraverso una visione tragica e insieme grottesca che è tipica nello scrittore russo: è sufficiente sottolineare come in La cinese il taciturno pittore Kirilov abbia lo stesso cognome di uno dei personaggi del libro in questione; andando tra l’altro incontro alla medesima fine: il suicidio ossia. Tutti questi piani espressivi, queste predeterminazioni nate dalle idee e dalle citazioni che illuminano le non-sceneggiature di Godard (poiché non scritte in maniera classica: non riportando un inizio, una fine e uno sviluppo prima della fase delle riprese), assieme alle caratteristiche del teatro epico (sottolineatura della finzione insita nella rappresentazione; sia il contenuto che la messa in scena che presentano fini politici; con in più qui la recitazione che segue i dettami dello straniamento brechtiano) fanno sì che si debba parlare più di caratteri che di personaggi, agiti anche più che agenti, diretti da una longa ma(o)nus che può essere di provenienzaa cinese come franco-svizzera.
Si pensi che dei cinque rivoluzionari l’unico attore professionista di lungo corso era Jean-Pierre Léaud, che interpreta un attore teatrale di nome Guillaume Meistre: evidente richiamo (apertamente dichiarato sullo schermo) al Wilhelm Meister di Goethe, ovvero un teatrante che dirige spettacoli di burattini. Mentre le due protagoniste sono una, la Wiazemsky, alla seconda pellicola (anche se si trattava già di un’opera importante, Au hasard Balthazar di Bresson, datata l’anno prima; e sempre nelle vesti dell’attrice principale) e la Berto, al primo ruolo importante dopo giusto pochi mesi prima di una breve apparizione in Due o tre cose che so di lei. Ovviamente la poca esperienza delle due ragazze è legata alla loro età, essendo ambedue ventenni. Però, sottolineando nuovamente la relazione privata che le aveva legate al regista, ciò fa pensare come quest’ultimo possa essere stato un pigmalione per entrambe. Con in più l’averle utilizzate sovrapponendo il loro dato biografico all’assegnazione dei ruoli, collocandole ai due opposti estremi, a mo’ di un femminile antagonismo in stile cinema classico che sorregge la struttura drammaturgica del film, ponendo la qui basilare domanda: chi è più in contraddizione rispetto alla dottrina maoista? Poiché la Wiazemsky è di origine aristocratica, oltre che nipote addirittura del Premio Nobel per la Letteratura François Mauriac; così come il personaggio da lei interpretato, Véronique, è di estrazione borghese, figlia di un imprenditore e studentessa di filosofia; è stata lei a rimediare l’appartamento per il collettivo; infine nella sua relazione amorosa con Guillaume è lei a incarnare la parte dominante. Laddove Juliet Berto proviene da una famiglia modesta; quando il suo alter ego scenico Yvonne è nata in campagna da gente povera, non ha ricevuto una istruzione scolastica particolarmente elevata e in passato si era anche prostituita per poter comprare beni voluttuari, tra cui una Fiat 850; divenuta membro di ’Aden Arabia’, è la partner di Henri, laureando in Chimica; come a causa di una predestinazione sarà lei l’unica del gruppo a occuparsi della faccende domestiche, mentre gli altri sono troppo presi da grandi progetti (è pensiero di Godard che il sistema delle classi sociali sia ineliminabile); e sarà ancora Yvonne, grazie a un pragmatismo del tutto proletario, a prostituirsi per mantenere i suoi compagni, incapaci di sostentarsi attraverso l’attivismo politico (ossia vendere ai passanti in strada copie del ’Libretto rosso’ e di un giornale). È a causa di questi motivi che vanno a lei le simpatie di Godard: al suo femminile e salvifico potere, contrapposto all’iniquità della violenza, dell’eliminazione fisica del ’nemico’ professata e poi perpetrata da Véronique, mediante un assurdo duplice omicidio. Nel contempo Henri verrà espulso dal collettivo, accusato di ’revisionismo’ filo-sovietico, deviazionismo ironicamente simboleggiato dalla sua strenua difesa di Johnny Guitar di Nicholas Ray.
La cinese si concluderà con l’ipotesi che quei ragazzi, dopo la sbornia rivoluzionaria, dirigeranno le proprie vite verso una tranquilla borghese esistenza. E a questa fondamentale opera della cinematografia godardiana si ispirerà nel 2003 Bernardo Bertolucci con il suo The Dreamers, lettura del ’68 che, al netto delle evidenti differenze stilistiche e argomentative, appare stranamente molto meno ri-lettura di quanto abbia fatto il nume tutelare del cineasta emiliano in presa pre-diretta nel 1967. Dal momento che il capolavoro di Godard impressiona ancora oggi grazie all’analitica lucidità nel leggere e restituire il proprio tempo: laddove è prerogativa di pochissimi saper interpretare il Presente. Mentre ha poi saputo incidere anche nella vita al di fuori dello schermo: quando una sua visione scatenò la rivolta degli studenti della Columbia University di New York nell’aprile del 1968.

Eppure l’erudito esteta ironico intellettuale contestatore Jean Luc Godard per mezzo de La cinese ha realizzato un pamphlet che baudelerianamente dichiara la superiorità dell’arte su tutto: politica compresa. Ed espressione artistica è la sede del collettivo: graffiti con proclami politici vergati sulle pareti, scritte su delle lavagne che riportano i programmi per le lezioni quotidiane, il mobilio, gli abiti dei personaggi; soprattutto il ’Libretto rosso’ che di tanto in tanto viene mostrato in numerose copie (simbolo del successo editoriale di tale scritto in Francia), invadendo lo spazio di altri libri e così occupando l’inquadratura grazie alla propria monocromatica e dittatoriale presenza: colori forti e decisi restituiti dalla cinematografia del grande Raoul Coutard. Mentre anche il piano del racconto è altrettanto figurativo, andando così a riequilibrare la preminenza dell’apparato letterario-verbale: come già detto si pensi al disvelamento della finzione della rappresentazione; o ai fondali colorati sui quali si stagliano i protagonisti che si presentano parlando di loro stessi, secondo uno stile che pare avere anticipato di trent’anni il confessionale del Grande fratello televisivo; o ancora gli inserti che vengono collocati in mezzo ad altre inquadrature secondo un montaggio che procede per analogia, didascalia o antinomia (con Ėjzenštejn che viene esplicitamente chiamato in causa dal regista parigino), inframezzando immagini di personaggi storici o relative alla cultura (popolare o al contrario più di nicchia), per meglio sedimentare nella mente dello spettatore il momento della riflessione e per portare avanti un progetto di rinnovamento del linguaggio in stile boccacciano.
In questo modo si realizza una comunicazione su più livelli dell’arte e attraverso l’arte, utilizzando le varie possibili arti, decostruendo per costruire una teoria e una prassi più generali riguardo una espressione artistica che passa attraverso il mezzo cinematografico.

Quindi nell’epoca della Guerra (o pace) fredda il blocco comunista ne esportava di idee fin dentro l’ancora accogliente Occidente. Un Occidente capitalista che, zeppo come era di più o meno forti minoranze rosse (in particolare, come abbiamo visto, tra i giovani), era disponibile ad ospitare gli altrui pensieri. In questo modo recependo domande e dovendo di conseguenza trovare delle risposte per poter sopravvivere. E così donando stimoli ai suoi cittadini: impulsi che si sono rivelati fondamentali anche per l’Età dell’oro vissuta dal cinema in quegli anni. Mentre a Oriente circolavano dissidenti aperti all’ideologia occidentale. Ma successivamente le rotture di equilibri all’interno della Cina (la morte di Mao nel 1976 e il cambiamento di rotta operata dal nuovo timoniere Deng Xiaoping) e un non riuscito rinnovamento dell’URSS (il fallimento del raggiungimento di un maggiore peso nell’economia da parte dell’industria leggera e della produzione di beni di consumo che potessero togliere peso all’industria pesante e militare), hanno fatto sì che alla fine fosse il Liberismo occidentale a invadere i territori a Est della Cortina di ferro.
Al tempo sì che la Cina era vicina, più di oggi: nonostante il mondo non presentasse i nostri livelli di interconnessione, dato che attualmente esporta solamente merci, virus, imprenditori e faccendieri, visto che la globalizzazione ha portato una vorticosa movimentazione di capitali (finanziari e umani) e di manufatti, il tutto che galleggia sopra un mostruoso indebitamento mondiale. E un giro anche di tante idee, sì: ma piccole, minute e che nulla hanno a che fare con le passioni e gli ideali ad ampio respiro di un tempo. Pertanto a dominare oramai è il Pensiero unico: grande nemico altresì di un’arte di massa quale il cinema è.
Durante i giorni più difficili del contagio da Covid, i mass media occidentali si erano affrettati a dichiarare che no, le merci importate dalla Cina non potevano trasmettere il Coronavirus. Poiché tale prerogativa spetta solamente agli esseri umani. Consiste in ciò quindi la ridicola tragedia che da decenni a questa parte assilla l’umanità? Vale a dire tentare di essere comunisti invece che consumisti? Malgrado, in ogni caso, il destino resta sempre quello di rimanere consumati...


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