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La dolce casa

Pubblicato il 10 dicembre 2015 da Anton Giulio Onofri
VOTO:


La dolce casa

La dolce casa è un viaggio che ha il passo di una terapia psicanalitica, affrontata per elaborare la perdita di un padre e tentare di recuperare un rapporto spezzato dalla vita prima, e dalla morte poi, attraverso il cinema documentario, o almeno attraverso le possibilità che il cinema offre per (ri)guardare, (ri)appropriarsi, (ri)meditare, e digerire la realtà oggettivizzandola ed eternizzandola in un supporto audiovisivo capace di ripetere qualsiasi esperienza tornando a coinvolgere, ad ogni (re)visione, più sensibilità insieme delle nostre facoltà percettive. Non ha importanza se questo padre, matto del villaggio, via di testa da qualche anno, sia o non sia il padre dell’autrice: l’ambiguità di fondo dell’idea stessa del cinema esclude questa esigenza di conoscere più di quanto non si apprenda dalle immagini e dalle parole. A disegnare il ritratto di questo padre scomparso sono i suoi compaesani, che lo ricordano chi con rimpianto, chi con spregio della sua demenza, ma anche con quel divertimento e con quel gusto per la battuta ironica e spiritosa comune a tutti i meridionali italiani, che una vita un po’ meno agiata ha fornito di quel nichilismo sano e vitalistico che non si ferma nemmeno di fronte alla morte. Ci si trova in un contesto di cinema piuttosto “alto” (la regista, per quel che se ne apprende visionando altri suoi precedenti lavori su Vimeo, ha mosso i suoi primi passi nell’audiovisivo sul territorio della videoarte) dove il flusso del racconto per immagini scorre come quello dei ricordi di cose vicine e lontane, dunque confusamente non lineare, per associazione di immagini, secondo i naturali e spontanei sbalzi d’umore messi in gioco dall’inchiesta dentro un dolore vissuto da vicino, nella realtà, ma anche nell’eventuale finzione cinematografica. Il percorso, in avvicinamento cauto e intimidito verso luoghi teatro di una vita familiare toccata dal morbo della follia paterna, avanza per gradi, in volute sempre più strette, occasioni per illustrare un Sud inusuale e fuori stagione, non necessariamente assolato e rovente, ma anzi avvolto in un umidore autunnale e vespertino vagamente profumato di inquietudine, come nella ricorrente sequenza del bagno a mare di un individuo nudo filmato in campo lungo e parzialmente fuori fuoco, nelle acque grigio cielo di un “Mediterraneo” tutt’altro che ospitale e accogliente. Le voci e i rumori del vento, del mare, l’abbaiare dei cani, le canzoni di ieri e di oggi trasmesse da radioline domestiche o diffuse dagli altoparlanti del paese durante una festa popolare, si accavallano e si mescolano nella colonna sonora che ci si immagina possa essere quella indistinta dei sogni, che infatti viviamo nel sonno, incapaci di ingrigliarli dentro una logica di eventi consequenziali. Lo stato di dormiveglia in cui l’autrice pare calarsi nel corso di un’indagine così sofferta ci investe e ci trascina incuriositi, nonostante la breve durata del film (appena 18 minuti), verso il rituale conclusivo, rivelandocelo già annunciato in colonna sonora fin dall’inizio: un gesto forte e privato, filmato con occhio discreto da una macchina da presa rispettosa di un’intimità familiare riconquistata a fatica, e consumato all’interno della casa vuota le cui pareti dismesse restituiscono la presenza di un padre che non c’è più e permettono, finalmente, di (ri)conoscerlo come evidentemente non era mai accaduto quando era in vita.

Tweeting: Un gesto forte e privato, filmato con occhio discreto da una macchina da presa rispettosa di un’intimità familiare riconquistata a fatica

Where to: Vincitore del premio della Giuria nella sezione Italiana Corti del 33mo Torino Film Festival.


(La dolce casa); Regia: Elisabetta Falanga; sceneggiatura: Elisabetta Falanga; fotografia: Roberto Tenace, Riccardo Caruso, Elisabetta Falanga; montaggio: Riccardo Caruso, Elisabetta Falanga; musica: Riccardo Caruso, Luigi Lombardi; Italia, 2015; durata: 18’


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